VELIO CARRATONI: Ecocidio

dalla rivista Fermenti, n. 7-10, Luglio-Ottobre 1976

Sono anni che ci fanno mangiare sterco, respirare gas tossici, bagnare nelle fogne. Ra­ramente qualcuno è intervenuto per prendere rimedi o per studiare attuazioni efficaci. Il no­stro non è un paese industriale, non è più agricolo (le campagne sono per lo più in stato di abbandono) e marinarmente sta diventando uno scarico di liquami putridescenti.
Le fabbriche disseminate nelle varie regioni intossicano l'aria, inquinano le acque, ma poco rendono ai lavoratori.
Si dice che l'Icmesa producesse sostanze chimiche per la NATO di sconosciuta origine.
In Italia quante sono le fabbriche che operano per preparare composti chimici di sospetta qualità? Pochi lo sanno. I lavoratori risultano cavie delle multinazionali. La cavia non deve chiedere null 'altro se non l'osservanza di ciò che viene richiesto da certi tecnici che possono operare come vogliono in barba alla legge. Questi sono reati che si verificano di continuo, ma che troppe connivenze rendono non perseguibili. La nube tossica di Seveso è stata notata per­ché sprigionatasi tutta assieme.
Ma i tossici che si sprigionano gradualmente o di continuo da fabbriche, auto, macchine di ogni genere, servizi pubblici e che si notano di meno, quali e quanti danni ci stanno arrecando per responsabilità altrui?
Si dice che tali usi sono per esigenze comuni d'indispensabile necessità. E si porta l'esem­pio di tutti gli altri paesi ove è in voga l'indu­strialismo più evoluto. n tali paesi sono in vigore accorgimenti che per noi sono lussi o rimedi di secondaria im­portanza come certe misure anti-infortunistiche di prima necessità. Industrialmente stiamo pagando sotto l'aspetto sanitario, per una politica dilettantistico-ottimistica incrementatasi negli ultimi anni solo per imitazione di chi le industrie le aveva perché sapeva anche farle funzionare. A causa di ciò si sono avuti troppi morti per mancanza di sicurezza nel lavoro e per motivi misteriosi. Ci sfuggono i dati statistici.
A causa di ciò siamo tutti condannati a morire lentamente per intossicazioni dovute a smog (nessuna legge anti potrà evitarli). Difficilmente è permesso conoscere fatti precisi per non arre­care danni all'economia. Così i ministri della sa­nità, dell'industria, dell'ecologia (che non esi­ste più) proseguiranno solo a firmare ciò che riguarda l'uso e il meccanismo di industrie sulle quali è difficile sapere pienamente. I tecnici competenti sono rari e poi se sanno devono mantenere il segreto. Da noi prevalgono gli avvocati e i letterati.
Quindi sarebbe impossibile rendere noto al­l'opinione pubblica l'elenco completo delle industrie, per avere notizie precise sul loro funzionamento e su ciò che producono. Neanche al ministero della sanità ne sanno abbastanza.
I tecnici che ispezionano certe industrie così possono anche non rendere conto compiutamente di certi funzionamenti ed usi. Le industrie sono l'esempio del progresso di una nazione. Se ve ne sono molte vuol dire che sono molti i lavoratori. A pochi interessa sapere come lavorano e che cosa producono, dato che il più delle volte neanche loro lo sanno. Se lo sanno conviene star zitti. Non si sa mai. Il lavoro può saltare. E poi la famiglia. I figli. Essere licenziati solo per aver parlato. Chi gestisce un'industria, a meno che non avvenga un fatto tanto evidente come all'lcmesa, può sempre dimostrare tecnicamente il contrario. Il lavoratore cavia deve quindi rimanere in silenzio.
Su chi ispeziona o ha ispezionato industrie ove lavorano le cavie del profitto si dovrebbe indagare. Ma è difficoltoso se non impossibile.
Comunque le responsabilità devono essere attribuite non solo all'lcmesa, che ha occultato fin quando possibile la sua produzione di triclorofenolo, ma anche al Comitato regionale contro l'inquinamento atmosferico che era a conoscen­za che la ditta non aveva reso note altre lavorazioni che erano in atto.
Responsabile è anche il laboratorio d'igiene e profilassi di Milano che sapeva che le acque di scarico che la Icmesa immetteva nel fiume Tarò erano a tossicità altissima. Tra gli altri l'ufficiale sanitario e certi soloni del ministero della sanità i quali a esplo­sione avvenuta non hanno saputo prendere nessun provvedimento urgente e consono alla gravità del momento. Ai bambini è stato permesso di giocare sull'erba infetta, mentre gli animali morivano con strazio e rapidità. Dopo quindici giorni si è parlato di evitare allarmismi, cercan­do ad ogni costo di non far apparire grave la situazione. Ancora dopo un mese dacché il fatto si era verificato non era stata creata una commissione per indagare sull'lcmesa tramite accesso libero nella ditta.

Centinaia di persone sono state fatte evacuare dai luoghi senza avere nessuna garanzia sul futuro; hanno lasciato case, terre, lavoro come profughi appestati. Così infatti sono stati reputati. Tanto che il loro esodo è stato ghettizzato. Tutti nello stesso luogo al medesimo trattamento. Le gestanti al terzo mese, di fronte a rischi, sicuri, o prevedibili sono state consigliate di abortire. Ma il solito Osservatore romano, con­trollato da chi non dovrebbe avere problemi di figliolanze, ha rivolto, in nome della solita proli­ferazione forzata e imposta, anche se nefasta e deleteria, un veto orbo, di tipica marca confessionale.
La popolazione di Seveso si è chiesta perché una ditta, che produceva sostanze chimiche di misteriosa lavorazione, operasse in una cittadina di 50.000 abitanti. Esiste una nutrita documentazione che dimostra come i responsabili del Crial, dal 28 marzo 1975, sapessero che l'Icmesa produceva triclorofenolo e che unica sicurezza di tale impianto era una valvola che scaricava nell'atmosfera prodotti formatisi, nell'eventualità di difetto nel funzionamento dell'impianto.
La diossina tra questi.
Il Crial di fronte a tali sospetti non ha ordi­nato la chiusura di una fabbrica pericolosa, ne ha imposto l'applicazione di idonei impianti di sicurezza. In una lettera raccomandata dei 7 marzo 1972 (n. 1637] inviata al sindaco di Meda, i'Icmesa descriveva gli impianti in funzione, senza far nessun riferimento a quelli per la produzione del triciorofenolo. Il Crial aveva avuto dei sospetti, tanto che in una relazione del 27-6-72 (fasc. 580] si dice « la ditta non accenna ad altre lavorazioni che certamente sono in at­to » ingiungendo di inviare una risposta, entro 30 giorni, risposta mai arrivata, senza che il Crial avesse effettuato ulteriori solleciti, mentre l'ufficiale sanitario taceva. Il 13 novembre 74 il reparto chimico del laboratorio d'igiene e pro­filassi decide di analizzare l'acqua che la fabbrica scaricava nel fiume Tarò. L'analisi accertava la presenza in quantità rilevante di un composto non identificato capace di determinare « mortalità totale degli individui nell'arco di 10 minuti ». Dopo tale giudizio non si muovono né l'ufficiale sanitario, né il sindaco, né il Crial. Il Crial si limita a scrivere una lettera cui l'Icmesa risponde con tre anni di ritardo e cioè il 28-3-75, con una relazione in cui vagamente si parla di trictorofenolo, la cui produzione era stata però sospesa.
Questi per sommi capi sono i motivi che spiegano il giallo dell'Icmesa, motivi di cui le autorità erano a conoscenza, senza che nessuno si fosse drasticamente e concretamente deciso ad intervenire.
Non basta promettere risarcimenti per risolvere il problema che rimane gravoso nella sua essenza, in quanto denota un sistema facile in vigore per responsabilità e complicità delle solite autorità competenti.
Quante altre Icmesa operano illegalmente nel territorio nazionale?
Domanda forse gratuita, dato che nessuno replicherà. Eppure una simile domanda interes­sa non solo le famiglie della Brianza, ma di altri territori minacciati. I rimedi solo dopo il fattaccio?
Forse neanche. Al di sopra dei fattacci in Italia c'è sempre una ineluttabilità che fa comodo a varie materie grigie della burocrazia di potere.

Velio Carratoni