EMILIO VILLA: Intervento su Mario Russo

dalla rivista Fermenti, n. 3, Marzo 1983

nelle immagini alcune opere di Mario Russo

Opera di Mario Russo

L'immagine (che si rivela incompatibile e inconciliabile con l'essenza incolore e con il principio della materia che è specchio e sostanza di ardua solitudine) è l'essenza medesima del dubbio. Ma che cosa è garante della sostanza dell'immagine, che cosa è garanzia dell'immagine, oltre la semplice testimonianza? Non sappiamo più tanto, più di queste domande: e del dubbio, appunto; animato da una riluttanza necessaria verso l'immagine, trascinato e giustificato da un simbolo velare di «materia» che attesti la sua profondità e la giustezza del suo orizzonte. Cosa può l'immagine? Cosa può stabilire come equilibrio o assenza postuma della «materia»? lo non lo so, io non posso dare torto a chi cessa di accettare l'interrogatorio della materia e dei suoi principi, per vedere che senso ha la pittura, acquistando i suoi modi e moduli fittizi. Ed è anche abbastanza credibile che se noi dobbiamo ricusare ostinatamente e di nuovo, dopo i suoi degradu, la pittura come pubblico servizio, o addirittura come adulazione verso ignoti, o come un servizio tecnico di 'ristrutturazione pedestre, sensibilistica della psiche moderna scenicamente sbarellante, della pittura ormai anche la società in cui viviamo dovrebbe o potrebbe proprio farne a meno, ora che siamo verso la fine, che sarà e che sia o brutale o dolcemente reclinante, del Quaternario. Per fortuna o no, la pittura: essa appare esclusiva di un surgelamento intenzionale della psiche, plastico, museastico sempre, in un museo-frigorifero che tende a rendersi simmetrico al volume aleatorio del vigente «transito» verso il Quinquienario, durante il quale, entro il cui processo, dovrà esercitarsi una fiorescenza diversa, oggi ignota, di cervelli, di visuali, di visualità e di paradossali cancrene ludetiche, neotiche, inconscienziali.
Intanto però, per stare al vissuto vivente ora, bisognerà, bisogna ritrovare un accordo tra dubbio ed essenza nel groviglio attraversato dalle spettrali o spettacolari figurazioni, da atletismi formali, da acrobazie grafiche, e sommatoriamente, da un teatro anatomico, da un landscaping inchiodato alle piccolissime emozioni e fragranze clorofilliche, alle energumeniche doti «espressive». Noi definiamo la pittura così concepita «figurante, figuratoria», come un estremismo fioco, puerile, che sta all'altro estremo delle due «arti di massa»: televisione da una parte e paleovisione (la pittura propria) dall'altra, ambedue in polarità negativa, anzi ambedue annegate. Cioè: una continua balordamente assestata ed alimentata, restrizione degli stimoli all'aldilà, all'oltre, al dopo della «materia», permanente, immanente, senza dilazione, senza spessori, con origini e profondità finte, con dilatazioni impregnate e compresse, coatte, con plasmi cabalistici e chimeriche essenzialità significatorie, o lontananze paraboliche di «vita vissuta», meandri di nullità umanoidi, attratte in perentorie gabbie di impulsioni e espulsioni segnaletiche, disegnate, segnate, vessate: frutti indisponibili di quella macchina per produrre la morte che è il «corpo visivo»; per contorni di angeli smagriti o migranti, micragnosi o micropsichici che sciacquano su fondali meteorologici, bianchicci o impolverati o sfumati di caligine da teatrino («spazio», «spazio-tempo», spazio-buontempo di immagine gorgografica), angeli di una Società Negativa, di una umanità pleurica e tecnospastica, dove permane rabbiosa la separazione degli esseri in vittime di qua e boia di là, in pecore e sacerdoti.

Opera di Mario Russo

Diciamo: la pittura, nel senso che la tradizione ci ha sbattuto sulle spalle uno zaino, era una, è una, meccanica oscillazione tendente a trasferire l'aerato (come «spaziale»?) nel figurato coatto, ovvero il figurato (come «realtà»?) nell'areato simbolico: troppo sempliciona e povera iniziativa, anche se plurimillenaria, quaternaria. La pittura che si adagia in siffatto accorato trionfo dell'inessenziale, nel colorato come abbandono della ragione e della mente pura, che si stende sul versante opaco del velario, è segnale, visitato e frequentatissimo, sia pure, di inezia: poche stabilità, scarsi fondali, che si incrociano con i simulacri ventosi, arieggiati, concisi e incisi nella cage à massacre che sarebbe la figura in un dato permanente, fumoso: e infatti diciamo che la pittura come tale è rimasta una forma, e un metodo, uno strumento, di asservimento (e radiazioni di tinteggiate lusinghe, enfatizzate dall'estetica) dell'immaginario e del delirio, una rozza vendetta contro la realtà profonda, altra, viva, vera.
Ma poi bisognerà però, per forza, tener conto e fare calcolo anche di quello che la pittura esibisce, e offre pure, nel senso di umana rituale offerta. Per cui il discorso di rifiuto fatto qui a inizio di una «pittura» tra le più vigenti, nel generale errabondo spettacolo operativo, nel laboratorio confuso dell'arte odierna, cioè la pittura di Mario Russo, va messo in azione di controprova, di nesso, di fase, di soluzione. L'opera di Russo è una specie di monitor inarrestabile, pittura da oggi all'infinito, prodotto per masse, per democrazie, per ceti, per spettatori e visitatori del tempo di attesa che percorriamo. Russo ha sempre dinnanzi (estrazione, istruzione, intrazione) una favola un po' amara della vita, un velario occipitale membranareo, meningeo, pruriginoso dell'amarezza: simbolicamente, coloritura livida, stinta, spettralizzata, scialbori e striature, foschie, sapori di cremazione, allucinanti e bagliori oculari del cromatico, l'acquoso celestiale del tintureggiato, il fievole incarnadine dell'epidermide, acquaceo rosaceo fané, tonalità di rischio, scontri di timbri, tra acidi e morbidi, tra molli e allappanti, nebbie lucori stralunamenti, indocili inquiete sensazioni d'ombra sfoltita, di luce civile in deperimento e degradazione, in veste molle di trasparenze di assurdo: tutta l'abilità e bravura coloristica di Russo, pittore un po' giocoliere, un po' spontaneo ed efficace tenore, omiletico di convulsa inventiva, si rannicchia, si appollaia nella sua privata privatissima, quasi clandestina concezione (o «remora») di minime misurazioni, di smarrimenti angosciati, di inarrestabili effetti, di escogitazioni, di prospettive, o prospezioni a baleni sensoriali, sinuosità e svirgolature, sciabolanti raggi, deflessioni e smorzature di diluizioni, che sembrerebbero discendere da mammelle-orchiaie poetiche, di una letteratura di imprimitura surreali, di quinte di velari e di arcobaleni di un intero racconto intra-reale, o di un surrealismo fortuito, direi quasi un surrealismo post-reale surrealismo partenopeo con chiazze di sangui sangennareschi, sangui azzurrognoli da cuore di Roberto, cuore matto, di clignotements da ielle miracolate, di tic e trasalimenti gaudiosi, di ironie poco poco sadiche, costellazioni di frammentari pizzichi masochici, di invenzioni volanti e verosimiglianze rinvenute sotto il disgelo del fantomatico, del sognante colesterolo con la seria dignità di un mestiere che riesce a resistere senza iniziative né di ambizione né di arroganza. Insomma: di una tradizione-traduzione familiare di pittura, di stampo arguto e di tempo allampanato; al quale la sorte ogni talvolta regala qualche nozione o annuncio o cenno di preziosa rivalsa contro il sistema delle significanze ovvie e delle insinuazioni di crisi.

Opera di Mario Russo

Stando alla sua naturale natura (al di qua, al di là dell'operato di mestiere grafico) egli opera una artificiale conversione alternante dei «toni» in «atoni» e «sintoni», mettendo in scena una scena pittorica di vibrante pulviscolo, e come sulla polvere di un ventaglio argentato, in intrichi e incroci secolari, tra segnali irresoluti e irrisolti, tra indizi di serie e di avventatezze, appunto, da giocoliere dell'immagine. E magari sul giaciglio o parete di una, non desiderata ma nemmeno ricusata, indolente malinconia di simulazioni e di simulacri artificieri, di anime-foglie, sfogliate secche, di delizie toccate con lo sguardo di sbieco, pallori intensissimi che succedono alla interiorità della sconfitta, nebulosità svigorite, ingabbiate, incapsulate, verdori di pessimismi e azzurità appannate di plein-air.
Pittura senza rinuncia, senza l'ultimo maggiore scatto della Flessibilità; e senza infelicità, ma rassegnata, e senza terrore del dubbio trasgressivo: soggetti in respiri e in brulicante scenata, in fatue propaggini di rimorso, di dissonanza accumulata, di dissolvenze. Persistente cateratta di fedeltà al gergo pittorico, trito, detto «proprio» o «tradizionale», linguaggio arrichito da molte delle sue contraddizioni, anche maliziosamente, come crescita inane, immotivata, e di tutte le sue estemporaneità (anche di gioco represso), delle sue cadenze, miscele, ingorghi di stesura, e di briciole plastiche di raucedini cromatici cromatosi e brevi gridi o di sotterranei improperi. Tra un colore e un altro, mai troppo distinti l'uno dall'altro, tra una riga e un'altra, attraverso acuti spiragli e lenti gorghi da lentigginosi grafismi e incroci incisi su estensioni brevi di carni o di atmosfere pregnanti, corre l'abile versificazione del pittore Mario Russo: stilisticamente edonista, graficamente baroccheggiante, presago di visualità superreali; pittore giusto e rassegnato, che irrora, con furia di tinte evanescenti, il nostro tramonto cereo, e ne acqueta il tempo, e ne giustifica la ineluttabilità. Poiché anche, sopra tutto, questa deve intendersi la funzione di un pittore nel mulinello di una cultura, di un tempo, di un secolo: segnare una rissosa traccia di partecipazione e di resposabilità, innestando, intuendo allusioni climatiche, misteriosi accenti, aree trasognate, visioni icastiche. Quello appunto che il nostro pittore genera, in fattispecie e in generi prevalenti: ritratti e analisi di caratteri fisici e di impronte o di rughe psichiche (una sua immensa cappella mortuaria, dove ha inserito, come in una necropoli obbliqua, tutti i più imperiosi personaggi del Potere, quasi irridendone l'anima nascosta, centinaia di ritratti intontoniti e come ibernati nel nebbione scolorito di una verità teatrale), analisi di anime e di tempie umili, quasi assenti, displaced persons e immagini di desaparecidios mai esistenti e sindromi segnificate di sessuopatie cadenzate, carezzate e pressate verso le proprie aride fonti del fisionomico; cataloghi di moraleggianti intuiti e di avvenenze evasive sui facciali sui frontali sui genitali sui pettorali della banalità imperante, presuntiva o narcisiana, uomini e donne vogliosi di legami trasgressivi e di incontri-scontri tra l'arte (cosiddetta) e la desolante scarica di maleducazione erotica; occhi e tempie beatamente felici di trasognate convinzioni, di arcane connivenze, avallate dalla manipolazione linea-colore di appagamenti artistici e di provocazioni siglate su una certificazione di pittura fatta a mano, di olio su tela, testa mezzo busto, mezzo primo piano, figura intera, fondale nostalgico, patetico miraggio ex deserto rilassatezza di ambiguità omofiliache, sbiancori paonazzi oligoemici, cupi arsenali di fisionomie eugenetiche, androgine, inchiostrate di garanze e di rubizze giocondità, di leccornie di pallidi di bruni vandiche o di spasimanti giallidinapoli affievoliti e interi vocabolari di reminiscenze anatomiche, velate, svelate, rivelate, di dormiveglia mordaci, di oniropatie battesimali, di crude aspirazioni al coito imbambolato e alla baldoria liberativa, in coordinazioni comico-sussiegose, in sudori colanti di calligrafie sommariamente e candidamente indizievoli, imprevedibili sfoghi di carnagioni democratiche e di retroguardie sessualizzanti; fervide impressioni di autorevolezza sociale su fronti dilatate o su crani inverosimilmente speculari, spettrali, unghiate di azioni minacciose e interrotte per sempre, inchiodate nella genericità della «posa», la posa indimenticabile (che poi va inteso in giaciglio di stupidità), corpulenze adespote, semicraniche, acefale, di invidiabile presunzione, apodia, apatia.
L'intero magazzino ritrattistico e figuristico di Mario Russo si porta così sulla dimensione del teatro rappresentato da una folla sorpresa e giudicata nell'attimo di compiere un rito, o di dire una battuta per coazione, per coercizione, per esercizio di vanità: la pittura induce a coercizione le così dette «immagini del nostro tempo», le contempera, le stempera, e addirittura le «stempora», come immanenze, incombenze, esistenze, esitanze, parvenze; le immagini come vaganti urne di piacere, urnette cinerarie del giudizio estemporaneizzato. Giudizio «pittorico», che contempla e protegge una certa quale castrazione del comprendere, del concentrare, nel «prospetto», nell'aspetto, nel dispetto, quando esse stesse figure sentano a sembrarsi veritiere e fedeli, attraverso la materia distrutta in fiatoni iridescenti, in polveroni coloriti, al formato nativo.

Opera di Mario Russo

Ho guardato tante volte questo spettacolo di persone del teatro di Russo: agganci e sganci, prese e riprese, apprensioni e svenevolezze, connotati che un po' tornano e un po' no; virtuosismi (a volte passabili, a volte irriti e irritanti, a volte corsivi, proprio in corsa, di corsa, in segnalazione di fenomeno ciecamente reprensibile), espressionistiche abilità di polso del pittore, qua e là straripanti, e che hanno di bello e di facilmente accessibile una loro furbizia, agilità e perfino freschezza a volte, e anche fredda naturalezza, senza lussi, ma come gesticolazione lesiva e irridente, a modo di orchestrazione melodica, che tocca atmosfere straniate, simulate; oppure in contrazione e affanno di gesto o di gesticolazione del colore: proprio di certe coloriture rugginenti terapeutiche, di impersonalità patologiche enfatizzate, prima o dopo, profeticamente o postumamente (come nei «ritratti» dei personaggi maggiori), persone logicizzate o fantomaticamente prologiche, con qualche residuato di macabri patemi nelle relique epidermatiche delle comparizioni e delle apparizioni.
La mano del nostro, agita le sue ombrate figure, ed è mano pacatamente nostalgica, neoclassicheggiante, melanconiosamente infatuata, quasi una perfetta-imperfetta tentazione (per linearismi) di naturalezza romantica (ricordo qualche sciabolata alla Sargent, alla Munkaksi, alla Boldinì parigini, per segnaletiche scintillanti, argentee: che ebbero alta reputazione nei loro tempi, quali polìtici adulatori della loro società che entusiasticamente servirono): e che persegue un segreto e indiavolato, micidiale a volte, percorso boschivo, giunglare (leporino, volpino) di satirico, perfino di satiresco, di sarcastico anche, espropriato, alle autorappresentazioni, di una società, un po' tetra e trasgressiva, ora un tantino in disuso, «avanzata» pochi anni orsono, ormai qui disavanzata; e con un disegnare-disegnare di concione affabile, disegno di una arguzia tra bonaria e arruffata nel suo luccicore «splendente»,altre volte «spendidi bagliori», e con esibizione di una addolcita perversità, magari intenerita perversione, indolenzita, di maliziosa vaghezza, in maniera greve o liscia, ora incantata ora compiaciuta, ora amareggiata, che attornia l'eremo incartapecorito dei sensi, dei sensoriali sensitivi sensazionati accenti di goccie amorose, di iterazioni e insistenze sisifee, della condanna frusta divertita inviperita sognata isteria e di nostalgie (il segno, la traccia del pittore, per lo più, esprime e significa proprio il dentro e il di fuori di quelli che presenta e rappresenta), di ipotesi anatomiche, strettamente attinenti all'anima del diletto, pertinenti e incontinenti; come in irrisioni socio-politiche, come si direbbe di obesi personaggi, di donne fasciate o sfasciate, lievemente pur sempre carnevalanti, carnevalesche, e sempre screziate da caldane scalmane febbricitazioni, giaciture stracolme di suggestioni in curvature, schiene curve e inanellate di truccaggi in colonna vertebrale; dove arrivano agli alti gradi simbolici le varie specie di sevizie e colorini di pelle, di ruoli aggressivi alleati all'amore e alla legge segreta di rifiutare il rigor mortis che l'icone instaura, di per se stessa naturalmente, come nei diagrammi feticistici; ruoli provocatori, umilianti e umiliati, intenzionalmente, grumi di inganni e crescenti intensificazioni di inganni.
Trovi in sintesi, nello spigliato e lungo annuario o album o lessico delle sue figure — le sto percorrendo quasi tutte, anche dei semplici disegni — un nucleo femmineo un soggetto femmineo-femminile vagante vago, inglobato nella rappresentazione di stravaganze-positure e ierogamie futili, da amplexus interruptus, e una divertente (divergente) ragnatela di incaute strutture amedoidi, sderenate e sovraimpressioni diluite (velature mistiche) o timide, quasi affini a scatti e scarti geometrizzanti, dietro qualche occhiaia occhione o occhio strabuzzante, o spento, allucinato o gonfio di pietà e di assenza, o pletorico e sporgente per vanità, voluttà, volontà di venire rappresentato bene nello stagno inerte della pittura pittorica. Picchiettata di granulomi nella sua psicosi, accesa narcoticamente di un immaginario eroico feticcio femminoide a effetto ritardato (proprio, come abbiamo detto, fin-de siécle impupattolato di altissime creature aspiranti al modulo, al modellino, all'imprinting proprio della carie del tempo) come Femmes terribles, di sesso inaudito e divorante, illanguorosità tra unti e sfavilli forzosi di pailletés, e velami e voiles, imbaldanzite, imbalsamate, inviperite, sdilinguite e spampanate nell'asimetrico della positura corporale, in bilico tra eresia e seduzione (seduttività, seduttivanza).

Opera di Mario Russo

Poi l'uomo maschile, l'ombra maschio, nei suoi manichini, nelle non più e non già siluette, forme pesanti che si scrollano di dosso l'attuale del sociale e del responsabile rappresentativo, come dando un addio al marasma vigente, per rifugiarsi a rannicchio nella nicchia del tempo, dell'Eone (aiòn). Ombre penose da incubi, da eretismi, da glicemie solennizzate o da purezze efebico-ginniche (arcaiche simbologie della bellezza corporea, come i Kouroi grecani e degli ellenistici partiti della pedofilia, la grande pedale alessandrina, attiva, pergamica, etrusco e romana), da erotismi bruciacchiati in cellophane, da voracità umanoidi moltiplicate o demoltiplicate in profili, in defilati, in frontali in diagonalizzati, in frammentate concitazioni di irrequietezza per incertitudine di possa e di posa necessaria, tutto insomma che rappresenti il modernis-simo, ultimo in ordine di tempo, mistico celibatario, e le sue sembianze-fotofoto: ombre della separazione de persona adpersonam, da maschera a maschera, in portamento cronico, contuso e confuso, cromatoso (e questo è come accadeva anche ai tempi della fluviale ritrattistica cinquecento-secentesca, e poi anche due secoli dopo), intrisa nel fantasma falloide, quasi come dentro una carezza di funghi muffe e verderame, piena della loro determinazione fondamentale di circolazione, di esagitazione confindustriale, meccanomarketing, manageriale, di metabolismo precario, di trionfale glicemico: cioé le ombrie residuate, in se in vitro in colore, di una società volontaristica tra demo-idiozia e nostalgia di adeguamento al processo opaco della «storia quotidiana» e del quotidiano trionfo impasticciato di tranelli di sfoghi di penurie di pene grondanti: uomo come posticcio materico tra uso e abuso del «buso ontologico», l'uomo raffermo, l'uomo contratto nella sua mole samaritana all'insù, rispetto ai suoi destini al tramonto, la pittura figurata, defigurata, affigurata, come strumento alternativo e subalterno della «visione d'immagine», prodotto sociale e governativo in se abbastanza stantio, è un marasma di impensabili cenni e accenni, citazioni e concitazioni dal fondo del polso e della mente (diciamo bene nutus), un grovigliato che non è ancora stato risolto (né in nuce di estetiche, né in convalide di contenuti, né in sintesi di attinenze, né in spettri di psicologemi), mentre dovrebbe innestare (innescare) una energia in nihilo abscondita, o un elemento o un alimento, neutro-nutrico. E cioè che la pittura sia (o magari anche non sia espansione o demolizione della caducità del mondo delogicizzato, deteologicizzato, defigurato: del cosmo, dell'atomico, della materia, dell'infro contrasto e del nulla perdurare di materia-non-materia; e che, come oggi fa ancora, la pittura nel suo fosco tramtram, nel suo losco zigzag e tirar di scherma, o anche, a volte, nella sua impresa giudiziaria per intacchi e strisce, segni e spunti, allievi e acqueti lo sfuggente smarrimento che ci deve opprimere contemplando, dell'Eone, lo spettro in contrasto, a colori o senza colori, in drammatico bianconero o in diluvio dì tinte. Perché: una cosa è il mondo, e troppo di tinte. Perché una cosa è il mondo, è troppo altra cosa è l'ambiente che ne avvolge e ammanta.

Emilio Villa