Intervista con Dacia Maraini

dalla rivista Fermenti del Febbraio 1979

Foto di Dacia Maraini

Dacia Maraini,
foto di Agnese De Donato

Quali rapporti intercorrono tra Donne mie e Mangiami pure?

Donne mie è un testo proiettato verso l'esterno rispetto a Mangiami pure, un testo di denuncia, soprattutto nella seconda parte.

Ti rivolgiamo la stessa domanda, pubblicata in quarta dì copertina: Mangiami pure è un momento di resa all'oscurità, alla ferocia, al mistero del ventre materno, o è un'offerta dolorosa alla bocca vorace e tenera del padre-figlio-amante? ».

Tutte e due le cose sono vere, sia la resa al mistero vorace del ventre materno, sia il regalare me stessa alla « fame » del figlio amante.

Mangiami pure colpisce per due motivi: la forma poetica moderna ma discorsiva, e insomma chiara a suo modo, e il tema dell'eros fagico, dichiarato fin dal titolo. Quest'ultimo motivo risponde ad una dottrina precisa, oppure è un'espressione d'urto, ma piuttosto casuale?

Non risponde a nessuna dottrina. So che l'eros fagico, come lo chiamate voi, è un fatto riscontrabile in tutta la storia della sessualità. Ma nel mio caso nasce da esperienze personali più che da una qualsiasi dottrina. Le poesie sono una elaborazione linguistica di un sentimento che ho vissuto più che la dimostrazione di una teoria. Le spiegazioni vengono a posteriori

Dal momento che il tema in parola sembra suscettibile di larghi sviluppi, hai intenzione di attuarne qualcuno? Ancora in versi o in prosa narrativa ?

Sto scrivendo un romanzo che probabilmente si chiamerà Lettere a Marina in cui il tema del cannibalismo amoroso in qualche modo sarà sviluppato e portato avanti. Ma è un lavoro che durerà un anno forse due, quindi è prematuro parlarne

La recensione di Eraldo Miscia (« Vita » 2 luglio 1978) ricorda il libro-chiave della dottrina erotofagica: L'amore come antropofagia di Gino Raya. Conoscevi la dottrina del famismo e tale libro in particolare? o ne dissenti?

Non conosco il libro di Raya. Conosco un solo libro sul cannibalismo ed è quello di Edward Volhard pubblicato da Einaudi nel '49. Conosco anche il Vangelo di San Giovanni in cui Cristo dice: « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue sta in me io sto in lui ». Non so cosa sia il « famismo ». Ma so cos'è la tentazione di « cadere » dentro gli altri, cioè di essere divorata, assimilata. Sono d'accordo con Giulio Cogni quando scrive: « per una logica inderogabile una volta penetrati, come per un foro, in un punto del mondo — il vivente fratello che mi divora — si è implicitamente penetrati nella vita interiore di tutto il mondo poiché si è abolita la posizione del « dirimpetto » e si è trapassati nella posizione interiore: come dire che immersi in un'onda del mare si è praticamente sott'acqua e quindi in comunicazione diretta con tutta l'interiorità del mare .. questa immersione equivale dunque e realizza in modo drammatico e pienamente calzante l'aspirazione di ogni mistica e di ogni poesia che consiste appunto nel farsi l'interno dell'oggetto amato o contemplato ».

Ritieni che uno sviluppo del tema dell'amore dal punto di vista fagico potrebbe determinare una innovazione negli schemi erotici ormai sfruttatissimi?

Mi sembra che l'eros fagico sia rintracciabile in molta letteratura. Quello che manca semmai è una riflessione approfondita sull'argomento. Quello che più mi da fastidio è il sentimentalismo che a volte si fa su questo processo crudele e arcaico del mangiarsi ed essere mangiati.

Secondo una certa lettrice di « Tuttolibri », n. 137 (1978), la critica, essendosi occupata a iosa del tuo libro, ed avendone trascurati altri di scrittori italiani avrebbe determinato, niente di meno che « una forma di terrorismo culturale ». // tuo pensiero in proposito?

Non ho letto la lettera su Tuttolibri. E' la prima volta che ne sento parlare. Comunque per quanto riguarda il libro di poesie è successo esattamente il contrario di quello che dice la lettrice. Ho avuto pochissime recensioni, quasi sempre « a coppia » (due libri di donne, due libri di giovani ecc. che in linguaggio giornalistico significa dare poca importanza). Ci sono quotidiani come « l'Unità », « II Messaggero « La Repubblica » (tanto per citarne solo alcuni fra i più importanti] che non hanno scritto un rigo sul mio libro.

Quale forma espressiva ti è più congeniale: narrativa, poesia, saggistica, cinema, teatro?

Non Io so. Ci sono dei momenti in cui penso che potrei scrivere solo poesie. Ma poi la voglia poetica entra in letargo e per un anno magari non ne scrivo più. Altre volte, come negli ultimi mesi, non ho fatto che scrivere teatro. Poi, dopo avere subito un grave torto (mi era stata commissionata una commedia su cui ho faticato per due mesi e poi all'ultimo, dopo che era stata letta e approvata, hanno deciso di non metterla in scena) mi è venuta la nausea del teatro. Adesso ho ripreso a lavorare ad un romanzo che da tempo mi gira nella testa. Erano due anni che non lavoravo ad un romanzo. La esperienza (durata un anno e che ancora continua) del piccolo gruppo è stata determinante. Un po' come la psicanalisi credo. Molti artisti, dopo aver fatto l'analisi, sì buttano a parlare di sé. Così io, dopo aver fatto un viaggio nel passato in compagnia di altre quattro donne, mi è venuta la voglia di scriverne. Questo sarà un romanzo più autobiografico degli altri.

In questa raccolta, prevale l'immediata espressione del vissuto o una certa sublimazione manieristico-culturale ?

Basta dire che adoperiamo un linguaggio che non ci esprime completamente che non è stato inventato da noi, che spesso è palesemente contrario ai valori « femminili ». lo come donna parlo una lingua straniera, la lingua dei colonizzatoci come gli africani che parlano francese, la lingua di chi li ha rapinati e uccisi. Ma non c'è scelta, non c'è alternativa. La cosa importante è non scimmiottare passivamente i colonizzatori, ma usare la loro lingua per dire cose che fanno parte della nostra più arcaica e originale tradizione culturale femminile.

Per sviluppare il discorso, vuoi precisare come, nella tua operatività culturale, riesci a superare il contrasto tra l'essere donna e artista?

Non lo so. Non ci penso mai quando scrivo. Credo di usarle tutte e due, come viene secondo l'esigenza del momento. E' la sensibilità che decide, l'orecchio sensitivo della mente, non il cervello.

Non pensi che la tua concezione di vita e poetica, sia alquanto aristocratica rispetto alla « normalità » di vita dei più? Se riconosci l'esistenza di questo contrasto come pensi di risolverlo?

Non credo affatto. Anzi, se di una cosa soffro alle volte è di sentirmi troppo didascalica, troppo politicizzata nei miei scritti. Forse nella poesia mi permetto più sofisticazioni linguistiche. Mi viene naturale. La poesia è libera da strutture. Mentre il teatro e il romanzo sono fatti di strutture che devono avere una loro solidità altrimenti non stanno in piedi. Sono molto affascinata dalle teorie di Artaud. Ma le considero delle opere d'arte concluse in sé più che dei nuovi metodi di lavoro teatrale. Sostituire il vissuto l'improvvisato alle strutture costruite sulla conoscenza e l'esperienza è un'idea esplosiva. Sostituire l'azione alla parola è un progetto di grande libertà (soprattutto se si pensa al teatro francese dell'ottocento che dominava i teatri dell'epoca di Artaud). Ma sono progetti e idee cariche di equivoci e mistificazioni se messi in pratica (da noi hanno dato luogo soprattutto ad una restaurazione terroristica del formalismo più tradizionale). Ogni improvvisazione infatti, una volta diventata spettacolo, diventa costruzione e quindi struttura. Ogni azione, anche la più casuale, una volta inserita in un sistema di ripetizioni come il teatro, diventa convenzione, una convenzione a volte più costrittiva della parola.

Nel tuo ultimo libro risultano preminenti la rappresentazione e l'influenza della figura paterna: come spieghi tale presenza

Non la spiego: è una realtà che ho vissuto e in quanto tale mi appartiene. Mi sono innamorata di mio padre quando avevo cinque anni e da allora ho continuato a inseguire in me molti padri e molti figli (poiché ogni padre è anche un figlio. Il padre che ho amato io comunque non era il padre protettivo, dominante, autoritario della famiglia tradizionale. Al contrario era un giovane (26 anni) bellissimo, affascinante, seducente, sempre in viaggio, per niente autoritario o possessivo. Fra l'altro non ispirava nessuna sicurezza, anzi il suo fascino consisteva nella sua assenza, nel suo fuggire sempre, con dolcezza e mistero.