Intervista a Ennio Cavalli

dalla rivista Fermenti, Aprile 1977 a cura di Velio Carratoni

Nella foto Ennio Cavalli

Nella foto Ennio Cavalli

Nella raccolta poetica « Naja tripudians » (Ed. Marsilio) hai descritto la vita militare come una bolgia fetida pur essendo stato scritturale (mi sembra) in un alto comando della capitale. Come mai la vita militare è riuscita a traumatizzarti anche se l'hai osservata un po' dall'esterno?

Dopo i primi dietro-front, petto in fuori e mitragliate esercitatorie, quello che ti viene richiesto dalla vita militare, così com'è stata finora concepita, è acquattarti, renderti fruibile, dimostrare che uniforme significa uniformità e che il tuo regolare funzionamento omologa quello dell'istituzione. Non più solo marce, dunque, o finzioni guerresche, ma servizi necessari alla macchina per autogestirsi.
Le vere sagome contro cui esercitarsi non sono più, allora, quelle piantate dagli zappatori, ma le molteplici presenze che ti attorniano: le alte e le basse forze, quelli con la camicia rotta in punti segreti « perché poi va riconsegnata al maresciallo magazziniere » e quelli col guardaroba pieno di indumenti color rosa-kaki perché fino alla pensione dovranno risplendere di quel colore.
Ogni rotella, dunque, è partecipe del meccanismo di lavorazione. « Naja tripulians » racconta la storia di una « recluta borghese » rinchiusa nel cortile di una caserma di Tarante a gennaio, con un freddo acuito in sinusite, per quello stare all'aperto tutto il giorno; dichiarato inidoneo alla leva di mare; di nuovo in treno verso il Centro Addestramento Reclute di Sora; infine, per un anno, l'Alto Comando della capitale, guide rosse e ultragenerali. Osservatorio privilegiato per verificare quanto appreso nel polveroso CAR, dove a tuonare erano semplici caporali: stessi cessi, stessa servitù, stesse cadenze.

In poco tempo (non hai neanche trenta anni — sei quindi più giovane di Bellezza che si reputa toccato dalla grazia) — hai pubblicato due raccolte di versi di cui molto si parla. Dopo aver collaborato a Paese Sera, Ulisse, Tempi moderni, sei divenuto da pochi giorni giornalista del GR 1 diretto da Zavoli. Mi ricordo che neanche tre anni fa facevi il bohémienne. Secondo te, perché sei stato reso o ti sei reso « ufficiale » così in fretta?

La mia bohème era la ricerca di un'area di rispetto per scavalcare lo svantaggio di partenza che mi vedeva tatticamente « figlio di nessuno », uscito dalla provincia (anche se quella vivificante della Romagna costiera), coinvolto in più urgenze espressive. Spola tra Riccione, Roma e Milano. Autore e venditore al dettaglio di canzoni (musica e parole), con un riscontro, nel '67, in hit-parade; organista in sette complessi, con raid nelle sale da ballo di tutta la Romagna; strisce di « Bidone », un personaggio a fumetti, pubblicate su quotidiani e riviste. E intanto, università, giornalismo e — bacino collettore di tutte le esperienze — poesia. Ora non scrivo più canzoni, né fumetti, ho chiuso da un pezzo come organista. Ho scelto Roma (dove vivo), il giornalismo (che pratico), l'attività di scrittore (in cui mi proietto).
« Ufficiale », dunque, soltanto a me stesso, dopo una bohème, se così la vuoi chiamare, di almeno dieci anni. Gli ultimi due li passai in stanza d'affitto, nei pressi di piazza Vittorio. Dietro altre porte, nello stesso appartamento, vivevano un vecchio portiere d'albergo, carta blu ai vetri delle finestre come in tempo di guerra (dopo i turni di notte riconquistava artificiosamente le condizioni per dormire), un americano disoccupato pettinato alla Giulio Cesare, uno studente indiano che con le sue abluzioni liturgiche inondava il bagno e un impiegato di banca in cerca di migliore alloggio. D'estate, io e il portiere ci incrociavamo fuori dalle rispettive stanze, ciascuno diretto verso il bagno, le mani rosse di ciliege da lavare.
Sì, è vero, mi sono reso « ufficiale ». Ora lavo ciliege in un lavandino tutto mio.

Al GR1, su Paese sera ti sei occupato di Montale, Moravia, ma non hai espresso su di loro alcuna riserva. Perché?

L'intervista premeditatamente « cattiva » mi pare un vezzo ormai scaduto. « Raccontando » uno scrittore, cerco di tracciarne un ritratto completo, il più possibile obiettivo, non di preparare un pastone dal sapore particolare, o troppo squisito o troppo piccante. Nel caso dell'intervista che è anche intervento critico ti tocca infilare tante perle, sbozzare rendiconti, compendiarli nella domanda-trabocchetto, nella sfumatura ironica, nel « cappello » introduttivo: ogni lettore (basta un minimo di malizia) può giudicare, dalla chiave di lettura così proposta, il grado di adesione dell'autore. In « Moravia e le donne », comparso su « Paese sera », ho definito i tesi di « Boh » racconti di racconti, a volte, quasi a denunciare l'angustia delle due colonne e mezzo per cui nacquero, complice la terza pagina del «Corriere della Sera». E' chiaro dunque che alle invenzioni « ad usum Corrieris » (del tutto rispettabili comunque) preferisco il respiro del romanziere. Ma tema dell'incontro era il femminismo moraviano, che ho cercato di chiarire riversando su un unico nastro, per così dire, la tesi delle femministe che gli contestano il diritto di dire io quando scrive « al femminile », di quegli interpreti, come Carla Ravaioli, che ne autenticano, al contrario, la straordinaria capacità intuitiva ed anche le postille, direi propiro plausibili, del diretto interessato.
Quanto a Montale, che la sua coartata ansia sociale, fortemente interrogativa ed elusiva, sia di stampo borghese, è inutile sottolinearlo. Inutile anche fargliene una colpa. Il suo caso e la sua stessa collocazione antropologico-culturale possono essere riassunti attraverso certe provocazioni, nel di più che si legge tra le righe. Sapendo dove poteva parare, gli ho rivolto questa domanda: « Se dovesse compilare di lei stesso un'immaginaria « pagella », quanto si darebbe in cultura generale, quanto in istintiva capacità artistica e quanto in partecipazione ai problemi politico-sociali del nostro tempo »? E Montale, puntualmente: « Partecipazione politico-sociale scarsa, molto scarsa. Tutto il resto in dosi, diciamo così, normali ».
Cos'altro c'è da aggiungere, salvo che la ironia del poeta potrebbe aver corroso ogni lato della questione, spegnendo subito la miccia?
Insomma, escludo che il giornalista debba fermarsi a riprodurre notarilmente le dichiarazioni, ma anche che vi sì sovrapponga brutalmente, considerando che tutti i vantaggi sono dalla sua e che il montaggio di un'intervista potrebbe consentire (a volte con un semplice ritocco a posteriori della domanda, bada bene, senza il minimo intervento sul senso letterale della risposta) le più insidiose manipolazioni

In genere sembri poco « arrabbiato ». La tua aria è poco polemica. Nei confronti della vita militare invece hai espresso sdegno, ironia. Dicendo che « il soldato si sente tradito » hai parlato non da contestatore, ma da accusatore lucido di un sistema che sa di apparato burocratico, come tutto del resto, in una società piatta ed ipocrita. Tale tono era già stato da te messo in risalto in certi scritti pubblicati su Paese sera. In altri, sull'erotismo nella Germania ovest o sul turismo in Romagna non sei stato forse osservatore attento distaccato e imparziale, avendo più dato risalto al ciò che è e non già al ciò che non dovrebbe o dovrebbe essere?

Essere « attento, distaccato e imparziale » nella redazione di un articolo o nell'intercettamento di un'emozione poetica non vuole certo dire evadere il discorso su quanto « dovrebbe essere ». « Paese Sera » mi manda a fare un servizio estivo sulla riviera adriatica? Bene, oltre a descrivere l'emblematico topless di un'aspirante nudista, vi collego — e sollevo — il problema dello scaglionamento delle ferie, punto debole tutto italiano, quando vacanza non dovrebbe significare rendersi tutti insieme vacanti, fino a settembre.
Spero di essermi mosso su analoga tangente anche in « Naja tripudians »: che l'ironia superi (e con ciò rafforzi) lo sdegno; che la varietà di situazioni, vicende e personaggi servano a compendiare un intero affresco; che le accuse, ancorché generali, incidano sulla sostanza della violenza istituzionale che si riscontra nell'ambiente militare, ma non risparmia altri settori della vita pubblica e del nostro costume sociale.

Ti senti più poeta o giornalista?

Un giorno trascriverò dai miei articoli, tesaurizzandoli, tutti quegli spunti e quelle « pregnanze » che sentivo, via via, di sottrarre alla parte più segreta di me. Li restituirò al loro nesso primario, recuperando così nuove e antiche circolarità. Nella mia poesia, invece, oltre ad un'esplicita fiducia nel valore della comunicazione, non c'è altro, credo, che riveli l'uso giornalistico, intendendo come tale la sintetizzazione perfino crudele di forme aperte.

Molti critici, come poeta, ti reputano in possesso di uno stile innovatore o avanzato. Oggi un po' tutti i poeti prosasticamente vogliono risultare sperimentali. Ma spesso certo sperimentalismo non diviene applicazione scimmiottesca di ciò che deve risultare nuovo per forza, anche se ben poco contiene di nuovo? Non parlo del tuo caso, ma di molti poeti che hanno abbandonato il rimario, manipolando e riscrivendo il già fatto. I poeti trascrittori, secondo te, sono poeti?

Credo nella funzione primaria della parola, e non solo in quella del poeta. Penso all'importanza della parola del medico, del giudice o del buon politico, quando contiene i fatti, distribuisce assoluzioni e condanne o si fa carico dei problemi di tutti. Non meno urgente e conseguenziale è la parola del poeta. Come si può demandare al farfugliamento il compito di rappresentare il caos o l'inappartenenza, il disagio e l'alienazione del nostro tempo? Essi si rappresentano da soli. La mimesi di tipo regressivo, dopo un po' diventa gioco, intristisce, si banalizza in formulazioni di comodo. Se alla espressione sottraiamo gli enzimi, i sistemi di difesa biologica, di fronte a nuove aggressioni perderà la sua capacità reattiva. Pudore e sfiducia eccessiva nella comunicazione mi paiono anacronistici e fortemente elusivi: fra questi due poli può scoccare solo la scintilla di una innovazione temporanea e « locale », come avvenne per lo sperimentalismo degli anni Sessanta (che aveva oltretutto una funzione ben definita nella scalata al potere culturale da parte delle sue punte avanzate).

Cosa ne pensi della poesia del periodo attuale?

C'è un boom che deve scoppiare; magari fra dieci o vent'anni o forse anche prima, ma si tornerà ad attingere alla fontana dalle cento cannelle, cioè alla poesia. Sembra che i poeti siano pochi, che tutto sia fermo, invece alla prima iniziativa editoriale pullulano facce e voci importanti. La nuova collana di Guanda, quest'anno, presenta Milo De Angelis, Tiziano Rossi, fra un anno proporrà Giovanni Bongiorno, altrimenti destinata ai canali, spesso mortificanti, dell'esoeditoria. Mondadori propone Cucchi, il « Viareggio » incensa Bellezza. Anche Marsilio, nel mio caso, si apre alla poesia. Bisognerà creare un nucleo di certezze, la vera « quinta generazione », e partire da lì per parlare di poesia italiana del nostro tempo. Non c'è campo più vasto e insondato. Non manca neppure il pubblico, è una specie di maggioranza silenziosa che nessuno s'incarica di consultare, a voler prendere per buona l'« uscita » di Montale, che mi confidò di ritenere le 50 mila copie di « Satura » dovute al pubblico dei poeti, trasformati in consumatori del maggior rappresentante della categoria.

In che modo ritieni sia possibile omologarsi e rendersi « ufficiale'» in un apparato ormai decrepito e falso'' Mi riferisco al giornalismo e a certa editoria di regime.

Credo che avere potere culturale, per chi ce l'ha, sia un po' come avere soldi: al di là di quell'oncia di superfluo che ti aiuta a sopravvivere, non si tramutano più in beni reali, ma in problemi di investimento e di interessi composti. Sfuggire a questa morsa significa sfuggire alla necessità di omologarsi all'apparato. Dall'esterno è più facile criticare te medesimo, la parte « immischiata » di te, nel rapporto con la società.