Con il suo recente Scrittura mia, edito da II Formichiere, si dice che abbia voluto attaccare certi personaggi del mondo letterario, ricorrendo a pseudonimi, e non volendo intenzionalmente citarli con il loro vero nome. Non le sembra mancanza di coraggio, essere ricorsa al camuffamento?
Assolutamente no, non ho voluto attaccare nessuno. E' molto comodo, del resto, dissacrare gli altri. lo ho voluto invece dissacrare, umiliare e svilire il soggetto («Adesso disonoro la mia poesia... degrado la mia persona» W. Blake) ed è questo il vero coraggio. Ciò non significa che gli oggetti (letterati) non siano stati coinvolti nella degradazione del soggetto (la Cicci) ma incidentalmente e senza intenzioni di denuncia.
In quale posizione colloca la sua nuova opera «Transito con catene»? Voglio dire: che aggiunge e toglie alla produzione precedente?
Questo libro è molto più vario dei precedenti. Degli altri quello più statico e calligrafico è «Le acque del sabato», ancora un poco succube di una certa educazione ricevuta a Torino da professori meravigliosi (ai tempi in cui c'erano ...) ma tutti crociani: per loro la poesia doveva essere perfetta, senza sbavature, senza ripetizioni, un piccolo gioiello ruotante su se stesso.
Fra i libri successivi, «Utilità della memoria» è molto vicino a questo mio ultimo lavoro, anzi non saprei dire quale dei due sia il migliore. Comunque è là che comincia ad apparire uno slancio innovatore: ciò che prima era visto in modo formale e distanziato diventa violenza esistenziale. «L'occhio del ciclone», poi, occupa uno spazio a parte perché è tutto siciliano e calabrese; in un certo senso è narrativo e si rifà ai miti della preistoria, con un senso della natura considerata come continua dialettica con la storia. «Transito con catene» si può considerare un'antologia di tutte le mie fasi perché contiene poesia da lirica pura, poesie molto impure, veementi e piene di polemica, e poesie scarne, trafelate come «Latinìe». L'ultima parte, «Extra muros» è la più sperimentale e buttata all'avventura: va dal bozzetto realistico alla poesia senza logica, senza punteggiatura, senza un filo connettivo.
Come mai a volte la ricerca rimane ancorata all'endecasillabo e alla rima?
La rima è un fatto strutturale, un puntello di sostegno nella musica della poesia, non un semplice abbellimento. E' un fatto permanente, così come lo è l'endecasillabo che è il respiro profondo di tutta la poesia italiana. In me è talmente connaturato che potrei parlare in endecasillabi, anzi le dirò che è un gioco che faccio qualche volta con la mia bambina, e un giorno, durante una lezione all'università, ho perfino invitato i ragazzi a farlo, proprio per dimostrare che la poesia non fa paura ma, al contrario, costituisce uno stupendo esercizio di civiltà. Non considero l'endecasillabo un elemento retrivo o ritardante nel corso della nostra poesia: non solo è vivo ma direi che è ineliminabile.
Però non usa endecasillabi e rime come sistema: sono solo sprazzi che compaiono come «chiusa «o qua e là nel corso della poesia. Lei che fa spesso riferimenti musicali mi dà l'impressione di un dodecafonico il quale in alcuni punti usi cadenze perfettamente tonali di tipo ottocentesco.
Vede, dire ottocentesco sa di vecchio; se invece dicessimo seicentesco o trecentesco diventerebbe tutto nobile. Quando notiamo che Montale ha preso tante parole dalle «Rime Petrose» lo accettiamo, ma guai se uno dichiarasse di aver attinto al Carducci: verrebbe considerato un vecchio barbone.
A proposito di Montale: alcuni critici le hanno attribuito una certa dipendenza, specialmente nei suoi primi lavori, da cadenze montaliane. E' d'accordo?
Ho sempre amato la poesia di Montale e mi lusinga molto di essere considerata una sua seguace, ma non credo che quei critici abbiano ragione perché c'è una differenza fondamentale. Montale mette in discussione il mondo, l'universo, tutto; io invece li accetto: la mia poesia è vitale, non è metafisica (anche se qualche volta vi si può trovare un'apertura in questo senso), non c'è mai quella sfiducia di tipo crepuscolare prettamente montaliana.
Credo però che quei critici più che ai contenuti si riferissero a un fatto formale.
Dal punto di vista formale può darsi che fosse vero. Allora. Perché in seguito gli influssi che ho ricevuto sono stati così vari, le acque si sono talmente mescolate che non posso davvero considerarmi montaliana, pur nutrendo per lui una grandissima ammirazione.
Pensa che le sue ricerche formali andranno avanti fino a soppiantare endecasillabo e rima, o le due dimensioni proseguiranno parallelamente?
Non posso prevederlo, perché non mi metto a tavolino a «fare» una poesia: come vengono vengono. In questo sono, non neoromantica, ma romantica in senso totale.
Mi consente una domanda cattiva? Lei non ha più bisogno di affermarsi attraverso i premi letterari: perché partecipa ancora?
lo non partecipo... Ah, sì: recentemente ho vinto il Premio Bari. Ma ho concorso soprattutto per simpatia per quella zona. Mi sentivo, per molte ragioni, vicina a quei luoghi, e poiché mi avevano scritto alcuni lettori di Bari per dirmi che in occasione del premio avrebbero avuto piacere d'incontrarmi, non so come — dopo sette anni che non partecipavo ad alcun premio letterario — mi è venuto in mente di mandare quelle tre poesie che poi hanno vinto.
Come era prevedibile. Però nella mia domanda era implicito che ai premi dovrebbe concorrere solo chi non è ancora noto.
Se fossimo in Francia ragionerei anch'io così, perché chi ha vinto il Goncourt sta a posto per tutta la vita. Qui invece c'è una sorta d'inflazione, per cui gente che ha vinto lo Strega, il Viareggio e un cumulo di altri premi resta ugualmente ai margini. Però devo dire che il premio se non altro ha il merito di riunire un certo numero di persone a parlare di un libro, e un certo movimento lo dà. E poi, essendo i poeti fra i più disagiati come categoria economica, i premi assumono la funzione che aveva il principe in altri secoli.
Fra le poesie del libro, quali le sono più care?
Mi piace molto il gruppo di Parigi. Ma forse soltanto perché è «l'ultimo nato». Comunque dovranno dirlo i lettori. A lei, ad esempio, quale è piaciuta di più?
E' una scelta difficile. Personalmente, mi ha colpito «II cammino inverso», quasi una dichiarazione di poetica, e ne approfitto per chiederle di togliermi una curiosità. Ho notato che fra i ricci ionici, gli adagi di concerto, la poesia e la storia che in quella poesia lei getta nel calderone come Cellini sacrificò «ogni rame» per fare il Perseo, non appare alcun elemento di cultura biblica. Come mai?
Purtroppo non ho avuto un grande retroterra biblico. Appartengo a una famiglia molto mediterranea (anche se di madre piemontese) nella quale la Bibbia non è mai entrata. In seguito ne ho avuto dispiacere e ho affermato che mi sarebbe piaciuto nascere in un presbiterio, con un padre pastore protestante che la sera avesse letto un capitolo della Bibbia (ma forse è suggestione nata dalla letteratura inglese). Mio padre era allegrissimo, spiritoso, era un tale scoppiettare di battute e di trovate che quando eravamo a tavola non riuscivamo mai a mangiare tranquillamente, era un continuo ridere.
elle sue composizioni non c'è angoscia, nemmeno in quelle più tristi: la serenità ha dunque radici nella sua infanzia?
La mia infanzia è stata serena per quanto riguarda i familiari, però l'angoscia è riuscita a infiltrarsi attraverso l'educazione cattolica: zie, altri parenti, donne di servizio mi parlavano della fine del mondo, del peccato, della santità. Ricordo, intorno ai sei anni, giorni in cui mi guardavo vivere quasi trattenendo il respiro per vedere se mi riusciva di non fare peccato. E per peccato intendevo anche il semplice dire «uffa» (di qui viene forse il mio odio per le parolacce e il mio parlare calmo), in seguito vennero l'angoscia di morire in peccato mortale e il problema di sapere che cosa fossero gli atti impuri. A un certo punto tutto diventava impuro: fra prendere un gelato e non prenderlo, il secondo fa soffrire di più e quindi è un atto più puro, e automaticamente prendere un gelato diventa un atto impuro.
Che pensa della poesia dei giovani? Se le proponessi il vecchio gioco del «qualcuno da salvare», chi salverebbe?
Mah, ce ne sono molti. Ad esempio Ramat, Cucchi, Dario Bellezza ha parecchie cose buone... Però per dire quali sono quelli da salvare bisognerebbe conoscerne alcune migliaia: esistono ottimi poeti che da anni stampano a loro spese presso tipografie o piccole case editrici senza riuscire a rompere il cerchio. Sul versante opposto, conosco poeti che valgono poco e sono affidati a editori importanti.
Non sono molti, forse troppi, a voler essere poeti oggi? Si parla addirittura di inflazione.
Come si fa a distinguere quelli in soprannumero da quelli che dovranno essere accolti nella cittadella? Nella peggiore delle ipotesi molti faranno da strame al passaggio degli altri. Alcuni non emergeranno mai, ma se non esistessero probabilmente al loro posto ci sarebbe il vuoto. La piramide si deve reggere, e nella piramide della poesia il fatto meraviglioso è che chi si trova al quattordicesimo posto può saltare al primo, per un'intuizione immediata, per la scoperta di un soggetto o di un tono, per un rivolgimento interno.
Come docente universitaria, cosa pensa di ciò che avviene oggi fra gli studenti?
Mi avventuro su un terreno terribilmente scivoloso. Ciò che mi lascia perplessa è che non si vedono mai bene le distinzioni fra le varie tendenze. Che i giovani si trovino in uno stato di enorme disagio basta guardarsi in giro per accorgersene. Però se dovessi dire, ad esempio, qual è la politica degli autonomi non saprei, e vorrei che qualcuno me lo sapesse dire. Leggo sempre attentamente le prime pagine dei giornali e mi pare che la situazione sia estremamente confusa. Una sola cosa è certa: c'è un grandissimo disordine, un grande non saper dove andare.
Da dove nasce questo disordine?
na volta l'Università era un fatto unitario, perché costituiva il vertice, un punto d'arrivo. Non tutti possono arrivare al punto massimo raggiunto dal fuco nel volo nuziale, altrimenti quello salirebbe più in alto per distanziarli. L'aver considerato l'università un'esigenza di massa ha sviato il problema e ne ha creato di nuovi: le università nate per diecimila persone ora ne hanno un milione e occorre un linguaggio che raggiunga la massa e che non sempre si può improvvisare; inoltre non possono essere aumentati con la stessa velocità professori, aule, strutture. Sul piano pratico, poi, abbiamo milioni di laureati di cui non sappiamo che fare. Mi pare che le ultime ipotesi di legge siano abbastanza sensate: la laurea non dovrà avere il valore di una volta, ma un valore più pratico. Che senso ha aver studiato filologia bizantina per poi dirigere il botteghino del lotto? Il novanta per cento dei laureati getta via i libri, un po' come accade in Germania dove ne fanno addirittura un falò ballando sul fuoco ed esprimendo un desiderio per l'avvenire, gesto simbolico che segna l'inizio di una nuova vita, diversa da quella degli studi.
Nell'Università di Messina dove insegna vi sono problemi uguali a quelli delle altre Università?
Come sempre succede nelle Università decentrate, i problemi sono più sfumati. A Messina come altrove vi sono vari gruppi politici, ma il grosso disagio non è, emerso a livello di massa. In Italia il '68 è stato un riflesso, ma a Messina era il riflesso di un riflesso. Gli studenti sono molto educati e composti e durante le lezioni non avvengono incidenti, anche se i bisogni sono più forti e apparentemente dovrebbero portare a reazioni maggiori. Nelle città come Roma o Milano siamo di fronte a un proletariato che è perfettamente al corrente della disoccupazione, però anche in questo caso si tratta di un riflesso, perché i veri proletari sono i padri, mentre i figli hanno fatto fino a quel momento gli studenti a vita. Nell'Università di Messina, invece, è più frequente il caso del ragazzo che nelle ore libere va a fare un lavoro manuale, e quindi la laurea per lui rappresenta ancora un salto sociale.
Qual'è la sua posizione rispetto ai problemi della donna e ai movimenti femministi?
Mi considero femminista integrale, nel senso che non faccio distinzioni come fanno alcune che accettano certe manifestazioni del femminismo e ne rifiutano altre. La ragione per cui mi sento femminista è perché il razzismo è una cosa deteriore e ripugnante e la violenza contro le donne — sia quella clamorosa come la violenza carnale o quella sottile e nascosta che si esercita all'interno di una famiglia o di un posto di lavoro — è un fenomeno di razzismo. Il razzismo, prima ancora che dall'emarginazione sul lavoro e in altri campi, è sempre stato contrassegnato dalla violenza: contro i negri, gli ebrei, i pellirosse. A me dispiace moltissimo di non essere un uomo per essere femminista: essendo donne, si dà l'impressione che ci convenga, mentre questo non è un discorso emotivo, ma un discorso razionale prima ancora che politico. Un uomo che fosse convintamente femminista darebbe una grande prova d'intelligenza; non vedo perché solo le donne debbano esserlo.
Perché l'uomo sa che individualmente ci rimette.
Sarebbe come dire che noi ci rimettiamo non escludendo gli ebrei, ragionamento tipicamente nazista. I nazisti sostenevano che gli ebrei avevano in mano l'alta finanza: «Se non ci fossero loro l'avremmo noi», modo di ragionare gravissimo che si bolla da solo. Chi non vede queste cose ha la possibilità di essere un delinquente in vari campi, partendo da quelle che sembrano sfumature e arrivando a prese di posizione estremamente pericolose, tanto più gravi in quanto sembrano veniali agli occhi di chi se ne sporca, come le barzellette antiebraiche che una volta si raccontavano e di cui tutti ridevano senza pensare al pericolo che avevano all'interno perché recavano l'idea di una discriminazione fra esseri umani. C'è chi è avaro e chi non lo è, chi ha cattivo odore e chi non lo ha. E chi non lo ha? Noi, naturalmente! Gli altri possono essere mandati a sei milioni nelle camere a gas perché appartengono a una razza inferiore. Questo schema mentale si nota anche in altri campi, ad esempio la caccia, la violenza agli animali, la mancanza di sensibilità ecologica; primi passi verso il razzismo e contro la donna e contro tutti gli emarginati. Non capisco come si possa essere ancora a questo punto dopo tanti secoli di raffinamento sotto tutti i punti di vista, culturale e anche religioso, cristiano.
Il cristianesimo non ha mai avuto ragione della violenza, per non dire che in alcuni casi l'ha sollecitata.
C'è stato però un cristianesimo esclusivamente morale, come quello di San Francesco, e periodi in cui si è realizzato lasciando da parte il potere temporale che è un risvolto politico. Non si può negare che attraverso i secoli ci sia stato un tentativo di realizzare quella straordinaria trovata che era il cristianesimo delle origini.
Quanto prevede che durerà la violenza contro le donne?
Bisogna aspettarsi che non finisca tanto presto, non fosse altro che per reazione al femminismo. Dalla piccola protesta singola, soprattutto da parte di scrittori come Ibsen che timidamente tentavano di prendere le parti delle donne, il femminismo è diventato una presa di coscienza pubblica e politica quasi universale, l'uomo sì sente esautorato ed ha reazioni di rigetto, capisce senza dirselo che il suo predominio è finito. Occorre però dire che le donne dovranno far uso di tutta la loro intelligenza: per il momento vanno benissimo le dimostrazioni, i roghi e il resto, però il femminismo non vuol dire essere uguali, avere lo stesso naso, portare gli stessi pantaloni, fumare il sigaro, ma significa differenziarsi. Non bisogna assumere atteggiamenti mascolini se non si sentono, così come non ci si deve mettere in crinolina se non se ne ha voglia. Le giovanissime sono quelle che più vivono il problema femminista, ma temo che sia più che altro un gioco, come quando noi da ragazzi andavamo alle sfilate fasciste e facevamo a gara per portare la bandiera. Ancora non hanno una vera interiorizzazione: speriamo che avvenga, se non la blocca il primo innamorato antifemminista. Ma certamente avverrà nelle prossime generazioni.
Quante generazioni occorreranno, dunque, perché si stabilisca la parità fra i sessi?
Due, credo. Al massimo tre.
Si arriverà ad una parità vera o hanno ragione quelli che temono un rovesciamento delle parti, un matriarcato?
Non mi pare possibile che si arrivi a un matriarcato, anche perché non c'è una struttura economica che possa permetterlo.
Ma anche per l'uguaglianza non c'è struttura economica adatta.
No, ma ci siamo abbastanza avvicinati. Basti pensare al nuovo diritto di famiglia che è un fatto rivoluzionario, anche se non tutti ne hanno preso atto se non sono stati personalmente toccati.
Ha parlato dell'avvenire del femminismo. Adesso, per concludere il discorso dove l'avevamo iniziato, vorrei la sua opinione sull'avvenire della poesia, sulle possibilità di diffusione.
La difficoltà di diffondere la poesia ci sarà sempre. A leggere un romanzo riescono tutti, persino un romanzo profondo e difficile: l'autore comincia col raccontare una bella storia e se è intelligente ti insuffla l'intelligenza in modo subliminale, senza fartene accorgere; ti trovi cambiato e non sai neanche a chi dire grazie. Mentre l'orecchio per il romanzo è molto diffuso, l'orecchio per la poesia lo è molto meno, perché bisogna avere — in parte in dotazione e in parte dalla cultura — una specie di metronomo interno, una specie di senso della musica che non tutti hanno. Vi sono persone molto intelligenti che rimangono inerti di fronte alla poesia: vogliono sapere prima di tutto «che cosa vuol dire», e già una richiesta così formulata rivela che non possono capire perché non si abbandonano; e poi non ne vedono l'utilizzazione immediata, cioè non si divertono, non sanno come va a finire la storia.
La poesia non dà frutti immediati: al contrario, i suoi frutti sono assai lenti e difficili da cogliere, e infatti la poesia che piace immediatamente è spesso quella meno valida. Mentre il romanzo è tutto sopra l'acqua, della poesia si vede soltanto la punta dell'iceberg.
Il gioco sta nello scoprire' quello che c'è sotto.
a cura di Serena Caramitti