Dall'esilio... di Ana Maria Botelho

recensione di Maria Lenti

da Punto di Vista n. 37, 2003

"il brivido | di questo suolo | per sempre | non mio || non c'è | un abbraccio ; che oltrepassi | quest'esilio": non è che un esempio del dolore dell'esilio, prosciugato e struggente, illacrimato e pungente, incolpevole e però accaduto, sdipanato nelle poesie di Ana Maria Andrino Botaelho. Dalla prima all'ultima linea la constatazione della lontananza forzata, avvenuta, non colmabile o non più colmabile, non lascia spazio tra il sé, anche quello della poesia, e il perduto e l'impossibile del presente: il luogo che ''si legge | nei | libri || e | non | esiste" è luogo del canto e della distanza raccorciata, così come è luogo di un presente e di un futuro in negazione.
Fuggita per costrizione di guerra dal suo Mozambico, l'autrice si rifugia a Lisbona, poi a Roma, poi a Ginevra con le sue radici e le radici di una terra che esiste ora, dopo essere diventata il suo "sogno ossessionato | dolore infantile". Queste radici, tuttavia, "in agonia i di luce", non mettono dimora: un po' come accade alle rose del deseno che ruzzolano a ogni vento in altro spazio serbando in sé, così Cechov nel racconto in Italia conosciuto come Ruzzolacampi, la nostalgia della prima terra.
Allora i versi (che potrebbero ricordare i moduli de L'Allegria ungarettiana, ma che si situano in realtà in una dimensione per nulla astratta e non ermetizzante) diventano gocce distillate, sillabe scandite e parole sincopate per significare un cuore che scruta ogni sua piega dentro il lasciato e l'abbandonato e dentro il viaggio senza ritorno, dentro gli appostamenti, provvisori sempre, di contro a una identità segnata con il sempre.
La poesia di Ana Maria Andrino Botelho si affida e si situa tra i due segmenti del sempre posti l'uno al limite dell'altro. Sono segmenti irriducibili e inconciliabili e però ormai fissati nell'esistenza e nel consapevole scorrere di uno spazio-tempo rintracciabile tra un niente-tutto (il prima) e un tutto-niente (il dopo). Vive - scrive Gualtiero De Santi, in una "Prefazione" che è lettura critica e contestuale insieme - in una sorta di vertigine supponendo "la dispersione ma anche la ricerca del senso e dell'identità, lo smarrimento e l'anni-chilimento del proprio corpo e della mente, ma anche lo spingersi sino a un limite della soglia di coscienza, dove la memoria distenebrata nei meandri delle sensazioni e delle nostalgie ritrovi infine la profondità delle cose nel loro stato incondito."

Maria Lenti