Squame

di Laura Bardelli

Prefazione di Donato Di Stasi

In una città semideserta, afflitta da un’asfissiante bonaccia estiva, in un puteolente commercio di calzature al dettaglio, principia la vicenda di Serena e della sua mirabolante metamorfosi in Sirena, primamente avvertita in una domestica vasca da bagno alla comparsa sul suo corpo di due o tre triangolini rilucenti.
Un elemento irrazionale (la squama su una caviglia umana), spia di un ordine ignoto, si insinua nella vita di tutti i giorni, ne azzera le norme: la squama è il punto di emersione del Fantastico, un’irruzione eversiva nell’esperienza vissuta, incontestabilmente perturbante.
Laura Bardelli gioca sulle esitazioni del lettore, lo convince a pronunciare le parole strano e meraviglioso, dovendo questi accettare avvenimenti inesplicabili secondo le leggi familiari e rassicuranti del mondo.
Fra tentazioni da bildungsroman (la storia è il percorso iniziatico-formativodi una giovane donna pressoché fallita) e una prospettabile regressio amniotica alla primordialità fetale, all’utero materno, il racconto si dipana in un divertito gioco delle parti, condotto dall’io narrante, il quale come un buon dèmone interloquisce con il personaggio-Serena, anticipandone o constatandone le scelte, rispetto all’assurdo di vedersi spuntare una viscida coda di pesce.
L’uso della terza persona consente all’Autrice il giusto distacco dal proprio rutilante universo diegetico che, dal piano della più bieca quotidianità (trattasi di una commessa con traumi e studi letterari alle spalle) viene catapultato in orridi boschi, paludi in bollore, creature fitoantrope e terioantrope, e ancora richiami di vecchie streghe, amori biondo-azzurri riaffioranti dal passato: la realtà e il suo doppio sviluppano braccia vischiose che si attorcigliano intorno agli individui senza che se ne accorgano (la vecchia incartapecorita del negozio di animali e la gatta di casa a che cosa alludono?)
Dal realismo più immediato Laura Bardelli traduce nel nostro povero orizzonte materialistico opposizioni divaricanti, campite di libertà immaginativa (realtà/simbolo,realtà/finzione,menzogna/verità),frantumandole barriere del senso comune attraverso un divertito processo di contaminazione che coinvolge scrittura, visività e visionarietà: dal romanzo gotico del Settecento inglese, alla neofavolistica disneyana, al polpettone indigesto harrypotteriano, senza tralasciare le istituzioni letterarie (i Grimm, Andersen, Poe, Landolfi).
È l’affermazione di un libero orizzonte plurale, pur incentrato sul normativo logos occidentale: sia detto qui per inciso che Squame si presenta nella sua complessa articolazione interna innanzitutto come un racconto litterato, ovvero un atto d’amore viscerale per il consunto oggetto-libro, feticcio di un umanesimo che non intende farsi seppellire sotto cimiteri di macchine.Nel piano immediatamente soprastante Squame sceglie le strade battute del racconto sentimentale, tentando di dare credibilità a uno straccio di relazione fra le disillusioni di Serena e i frammenti di un solipsistico discorso amoroso con un fantomatico personaggio chiamato The voice: la protagonista reagisce con passione, anche se con lentezza, alle avversità, né esclude di poter contrastare con qualche probabilità di riuscita il sortilegio dell’infelicità.
Salendo ancora di un piano Squame risulta una sorta di parabola religiosa, se è vero che il personaggio e il suo doppio, Serena/Sirena (Nomina sunt consequentia rerum!), ci convincono che la vita è definibile come un’ombra dentro un dèdalo di sconosciute possibilità, mentre se si desidera contemplare la realtà nella sua essenza, bisogna ascendere al sovrumano, all’intelligibile, alla teologia. Tutto riconduce alla concezione platonica del Fedro che postula una circolarità di reincarnazioni e rinascite intorno all’esistenza fisica, intesa quale riflesso, schermo illusorio, velo pietosamente calato sulle miserie dell’esistere.
Squame assume allora le fattezze del racconto mitico-metamorfico: la comparsa di formazioni lamellari sui malleoli di Serena impone un evidente riferimento ai piedi caprini landolfiani, descritti nella Pietra lunare del 1939, anche se di Tommaso Landolfi Laura Bardelli non riecheggia l’orrore per il soprannaturale che incessantemente si riversa nel mondo della veglia, piuttosto la smisurata ironia che non disdegna di trovarsi faccia a faccia con la verità.
Si può sostenere che nella sua dimensione più alta Squame avvince per la sua peculiarità di racconto gnoseologico, quando espande le domande, interroga gli eventi, sposta di continuo lo svelamento definitivo della fabula: Laura Bardelli non abbandona mai il lettore, lo coinvolge negli aspetti fàtici, l’obbliga a ripensare il concetto di normalità, incrinando spesso il corso ordinato dei suoi pensieri; a livello tematico getta sapientemente il dubbio su fatti che chiunque certificherebbe come certi o accertabili. L’Autrice ricorre a una scrittura ancorata al sermo cotidianus (al parlato), ma nello stesso tempo rigorosa, per niente aleatoria con godibili punte di leggerezza, briosità e callidità argomentativa (“la tundra desolata del centro commerciale”); semanticamente dispone le parole in modo obliquo, perché sfiorino il Mistero, lo corteggino con la loro seducente retorica. Ricostruisce così i segni delle narrazioni orali, i gesti degli antichi fabulatori, rinviando a un primitivo modo di favoleggiare legato alla phoné della presenza, tuttavia sa di essere una vestale laica, disincantata, con la possibilità di ricorrere in senso formale all’armamentario del racconto gotico, staccandosene quando si tratta di sottoscrivere nei contenuti le scimmiottature pseudosciamaniche odierne, o la spiritualità venduta in confezione spray.
Al contrario lo scenario metamorfico di questa scrittura è serissimo, è l’autre moi di cui parla niente meno che Proust, in un congegno a suspense, organizzato secondo il modello dell’enigma, perché solo così si può sperare di cogliere l’attimo fulmineo di una qualsiasi rivelazione circa l’esistenza di un sopramondo spirituale.
Laura Bardelli apre brecce nella relatività, nell’incompiutezza, nella malcelata contingenza del nostro becero presente: dentro gli sbreghi del reale assorbe, filtra, infila molteplici linguaggi, intesse e rende compresenti mondi lontanissimi (la strega di Biancaneve, Crudelia Demon della Carica dei 101, il pesce Eugenio/Montale, la sottile falce di luna di D’Annunzio, il filtro “magico” per guarire dall’indesiderata metamorfosi in pesce-donna).
Nel postmoderno mediatico e virtuale il realismo vacilla come non mai, sembra un elastico che possa spingersi dappertutto fino ai non-luoghi: di fronte allo schermo di un computer chiunque si sente autorizzato a ampliamenti e condensazioni spazio-temporali incredibili, incontrollabili. Ma si convenga, è finzione della peggior risma.
Altro offre la letteratura e l’Autrice nel suo particulare: da un lato le lacerazioni del senso attuale della vita, dall’altro la volontà di ricongiungere i frantumi, di ritrovare un significato credibile alle azioni, tenendosi strettamente aggrappata alle parole, a loro volta tenacemente incollate l’una all’altra (“Alloracomestavachefacevacaldoperònienteinconfrontoall’estatescorsanonci-lamentiamo..”). Quanti campanili, uno sull’altro, occorrono per raggiungere il fondo del mare? A questo e a altri bizzarri quesiti è in grado di rispondere Squame, una boccata d’ossigeno (o di branchie, se volete) nell’asfittica e melmosa palude della chiacchiera contemporanea elevata a sistema.

Donato Di Stasi