Alla ricerca dell'Oltre di Donato Di Stasi

Note su Il faro di Bighlise di Claudio Fiorentini (Fermenti Editrice, 2007)

Il faro è una costruzione limpida, aeriforme, prometeica, quando scava nel globo oculare delle tenebre e impedisce a cose e avvenimenti (illimitatamente pieni di tempo, limitatamente vuoti di significato) di andare a cozzare contro la parete oscura dell'inconscio. Il faro ingloba ogni chiarezza, ogni comprensione, qualsiasi definizione della realtà, così tiene incollati tutti gli sguardi su di sé, poiché illumina l'immensa superficie dell'Oltre, vale a dire l'altro della vita, quello che in apparenza cerchiamo, ma che facciamo di tutto per evitare, per non dover prendere coscienza della nostra vera natura, dei nostri fragilità e delle nostre debolezze. Claudio Fiorentini scrive per dipanare il filo degli eventi, per annodare le combinazioni umane più bizzarre, per concatenare le mezze verità della veglia e le verità e mezzo del sogno: leggere le sue pagine significa scivolare dentro uno scafo solido, di tanto in tanto sbatacchiato da un soprassalto di corrente, nel quale il mondo viene risucchiato e restituito sotto forma di narrazione accattivante e di divertissement intelligente e sardonico. Leggere Il faro di Bighlise comporta l'obbedienza alle norme diegetiche stabilite dall'autore riguardo ai suoi svelti paragrafi, ai codicilli di una voluta illusione, alla lotta incruenta (nei mari d'inchiostro almeno) contro il tempo e la morte: sotto ogni tempesta o bonaccia esistenziale per comporre romanzi bisogna saper manovrare la thyche (la ruota del caso) per sbeffeggiare la vastità pluriforme del destino e rinchiuderla nel perimetro delle pagine narrate. La vicenda, qui al vaglio, ruota attorno al misterioso faro di Bighlise e al suo guardiano, Amilcare, facondo santone, ciarlatano, o più semplicemente saggio d'altri tempi, capace di tenere legate le vite smaniose di un divertente serraglio postmoderno. Discendenti a loro modo dalla sublime tragicità dell'eroe romantico, oltre che dai flutti tranquilli dell'eroe borghese, i personaggi in azione aspirano a una certa esemplarità in un tempo storico come il nostro, nel quale tanto poco contano le testimonianze individuali, da qui la bizzarria di nomi altamente improbabili come nel caso di Cantalapena (lavorante in un'agenzia di pompe funebri con le mansioni di decoratore di feretri), Tarbo (ereditiero sdrucito, perennemente in analisi per passatempo), Napalm (il tormentatore notturno che sbomballa gli zebedei del narratore con telefonate agghiaccianti su improbabilissime e sgangherate trame di film prossimi venturi), Penelope (sorta di incrocio tra Calipso e Circe, prostituta di riporto, invero sentimentalissima ricercatrice di affetti). Il narrante, tal Gigle (sembra il nome di uno stacchetto pubblicitario), si profila come voce interna intradiegetica, che stantuffa il proprio cervello sul rapporto tra "anoressia e obesità nelle tribù nomadi del Polisario", si invaghisce malgré tout della seducente peripatetica di cui si è detto, e per buon riporto si sottopone a parassitarie sedute psicologiche per interposta persona (il Tarbo di prima), al fine di trarne qualche beneficio per le proprie dissestate stanze interiori. Il faro di Bighlise assume i contorni del romanzo di formazione (bildungsroman), quando proclama il suo eccesso di diversità, la sua costante rottura delle costrizioni esteriori (consumismo et similia), la sua caratterizzazione per paradossi all'interno di capitoli narrativi che si distinguono per verosimiglianza e credibilità fino al rovesciamento conclusivo che ogni lettore potrà scoprire senza grande sforzo. Svelto come una sceneggiatura, fittamente intessuto di dialoghi, caustico come un pezzo di cabaret, grottesco, a tratti lirico, rigoroso squartamento dell'omologazione, Il faro di Bighlise offre altresì un piglio di scrittura sociologica, facendosi l'autore memorialista e cronista di esistenze inceppate e malvolenti. O per descrizione diretta, o per raffinato gioco di specchi, il racconto intreccia e oppone destini di infelicità e di delizia, di suprema incosciente leggerezza e di disperazione per il mancato raggiungimento di aspirazioni amorose e di una passibile tranquillità esistenziale. In iato, frase per frase, si succedono arcipelaghi, insularità assolute, bracci di mare superbamente ondosi, che non toccano ma lasciano avvertire il mistero assediante delle cose sotto l'azione escoriatrice del tempo, sotto il solido peso dei sentimenti: Claudio Fiorentini, da perfetto viaggiatore, non sfugge al turbiniò che agita le onde dei rapporti umani, colloquia con le profondità abissali della coscienza, lì dove si abbarbicano i relitti psichici di ciascuno di noi. Come un serie di fogli consunti dalla salsedine, Il faro di Bighlise appare come l'opera che il suo autore ha strappato all'assolutezza e offre ai lettori nella prospettiva di scoprire i veri segni del mondo, di rinvenire i movimenti che si compiono dietro le facciate degli incontri quotidiani. Con la tecnica dell'illustratio l'autore rende drammaticamente e ironicamente visivi i fatti, esprime riflessioni (forse l'aspetto più interessante del libro), ricorre a una scrittura concisa, ordinata, realistica, in cui vibrano acutezza e autentica profondità. Nella circolarità di giorni uguali Claudio Fiorentini pone la questione determinante dell'altrità, dell'Oltre insondabile, di quel quantum di mistero senza il quale la vita scorre come una fastidiosa sarabanda di inutili saliscendi.

Donato Di Stasi