Candidi asfodeli e vezzose ortiche

di Gemma Forti

Recensione di Vittoriano Esposito

Con un titolo volutamente in chiara contraddizione con le ragioni fortemente etico-civili della materia ispiratrice, Gemma Forti ha raccolto e pubblicato un mannello di poesie scritte tra il 1998 e il 2003, negli anni cioè del difficile trapasso dall'uno all'altro millennio. Dice bene Donato Di Stasi, a tale proposito, nella sua acuta introduzione:
"Candidi Asfodeli Vezzose Ortiche" sembra un titolo curioso dalle valenze ornamentali, vagamente liberty, invece racchiude contenuti drammatici, un melange grottesco di sperimentazione e narrazione, di crepuscolarismo ed espressionismo, una cifra compositiva personale che, tra accelerazioni realistiche e rallentamenti intimistici, contrasta lo sterile epigonismo odierno e insinua la necessità del riscatto estetico, per non cadere al conformismo, come dire che l'Autrice si aggrappa alla sua fiducia nella scrittura, al posto di lasciarsi sedurre dalla brutalità dei rapporti di forza dominanti (Il canto oscuro degli uomini e fumo nero / sui templi inviolati /Dimora dei nuovi dèi, La luna buia)".

Nulla di ornamentale, davvero, in questa silloge, nulla che sappia di vuota retorica sull'esercizio della parola: tutto, al contrario, si fa specchio della realtà crudele che inchioda l'uomo alla responsabilità d'essere artefice, più consapevole che inconsapevole, della tragedia che incombe su tutti e su tutto. Bellissimo, pertanto, pur nella sua dimensione drammatica, il poemetto d'apertura, La luna buia, con quegli uomini che si aggirano tra "polvere da sparo e sangue caldo", mentre l'invocato Dio degli eserciti assiste spaurito al compimento della strage d'innocenti. Bellissime anche le pagine che seguono, tutte rivolte a rimarcare la sete di "sangue fratricida" che si nutre di preghiera nel segno di "cieche ideologie"; oppure la sete di dominio dei "padroni del mondo", che si riuniscono sempre a convegno banchettando tra "ostriche aragoste champagne caviale", per discutere sulla fame del mondo; o ancora le promesse di pace che si rinnovano ad ogni Natale, "al suono corrusco di campane che intonano Te Deum / tra carne maciullata di cadaveri e ritmo incalzante / di proiettili e bombe intelligenti".

Non meno belle e interessanti sono le pagine sull'America "forte guerriera" e l'Europa "decadente viziosa" e sui signori del terrore", che "si avvolgono rissosi nel buio", con allo sfondo le madri "mute senza voce", le spose "diacce senza sangue", i padri "orbi senza sguardo" e i figli "in pianto senza pianto".

Se dovunque e comunque incombe la tragedia, vuoi dire che l'uomo elegge la Morte a propria Madame, talvolta con la consolazione di sentirsi incolpevole perché travolto dalle circostanze e dalla nequizie dei tempi. Si potrebbe trovare salvezza nel ritorno alla natura, alla libertà del sentire le cose gratificanti della vita, al sogno che si alimenta alla "esile melodia" del mare oppure alla luce che brilla come "fiamma sulle colline". Ma non sempre si riesce a contemplare la natura con occhio pacato, perché può anche accadere che gli stessi alberi vengano minacciati di morte, per cui levano "alto il lamento nel cielo" chiedendo vendetta mentre si adagiano a terra, abbattuti e spaccati con violenza dalla mano dell'uomo.

La verità, purtroppo, è che si vive in un'epoca "di mostri - di vizi - di triti sfizi - d'impomatati - di / imbalsamati - di clonati / di tetri vezzi - di biechi scherzi": un'epoca di sangue sparso sui campi, sulle piazze, nel chiuso delle case; un'epoca "grezza e scura / amante di falsi miti - di biechi riti", di satelliti e cellulari. Epoca bella in apparenza, ma in realtà fatta "di mostri".

Di qui l'opportunità di rifugiarsi nel "nonsense", il piacere ingannevole di abbandonarsi alle trame illusone della "fiction", in cui spesso interviene un "angelo buono" per assicurare un lieto fine e, più spesso ancora, subentra l'amore che "allontana la morte e dà essenza alla grama esistenza". Senza però dimenticare che la morte e il dolore sono sempre in agguato e che, per aver successo nella vita, come insegna il film realista Adua e le compagne, ogni compromesso è buono "per accrescere il capitale / ed essere quotati un borsa".

Soprattutto una poesia-protesta,dunque, quella di Gemma Forti, una poesia-rivolta, una poesia-verità, come ai tempi del realismo postbellico, ma con un engagement senza limiti precostituiti, cioè senza una tendenziosità rigidamente ideologica, con la libertà di denunciare in tutte le direzioni, al solo scopo di proteggere l'uomo e la vita.

Ma chi pretende ancora che la poesia debba essere un puro esercizio di bello stile, nella stessa raccolta di Gemma Forti può trovare versi e immagini di grande incisività. Eccone qualche esempio, tratto un po' a caso:
"Tu che ascolti attento le preghiere della sera / E il tenero fruscio dell'oro nei forzieri / Dio dei naviganti e degli erranti / Dei senza terra e dei senza Dio" (cfr. la luna buia); "S'adagia il vento e raccapriccia cupo nell'arida radura // Ergiti vergine figlia della selva e scruta / Fragile pallida nuda tra le canne / Mobili lamentose al soffio fievole della natura /Che freme scalpita / Stretta nei lacci di catrami fumi bituminosi / Nello stagnare secco della luna capovolta / Afflitta sul ramo torto della sera / Buia infinita senza tempo" (cfr.S'adagia il vento); "Era fredda la luna / E distillava sangue // Il coro delle nàiadi - ninfe ribelli - / Il seno e il pube discinti § circoncisi / risuonava tetro / Sull'ara gelida del marmo" (cfr.Era fredda la luna).

Con queste citazioni s'intende dire semplicemente che Gemma Forti, se vuole, sa abbandonarsi al bel canto, al bel verso, secondo la nostra migliore tradizione; e sa, all'opposto, anche cimentarsi in esercitazioni linguistiche nel segno dello sperimentalismo avanguardistico, come dimostra nelle ultime pagine (cfr. Nonsense, Bianco azzurro); ma sa, soprattutto, far poesia nel senso perenne della parola, come attestano le sue opere precedenti (Zefìro cortese, Finestra in alto e Gli occhi della genziana), con le quali si è affermata tra le voci più valide dell'ultimo Novecento.

Vittoriano Esposito