Erba cattiva

di Andrea Costa

Recensione di Giuseppina Luongo Bartolini

L'autore, in quarta di copertina, esordisce con un suo brano poetico, in tono di rivolta: "Ho sperato invano che le mie | inquietudini svanissero con gli anni | ma questa volta ho deciso di non | strappare l'erba cattiva che si | ostina a crescere dentro di me | nonostante il passare del tempo, | e l'averla messa su carte mi aiuta a pensare di essere rimasto me stesso". Egli vive a Bondeno (Ferrara). Si interessa a tutto ciò che riguarda la scrittura. Ha trentuno anni. E, in queste pagine, ci presenta trentacinque sue liriche, per le quali, in una nota (p. 45) conclusiva, egli esordisce dicendo che la sua raccolta die "nasce sul campetto coltivato dal più ordinato dei contadini, sul terreno che è la mia vita, squadrato come tanti se ne vedono dalle mie parti, tutti uguali, belli, ordinati, di cui un genitore può andare ben fiero; la vita di un trentunenne ormai fatta di lavoro e di poche passioni superstiti al tritatutto delle responsabilità..." Donato Di Stasi, il prefatore, chiarisce che si parla di una poetica del quotidiano, vissuto come ispirazione e luogo di scrittura.
In effetti, si tratta di un libro che segna l'esordio di un giovane che dichiara di credere nei valori dello spirito e dell'intelligenza, quindi, nella parola che si fa voce dell'anima, espressione di un riservato canto interiore, freccia di un colloquio per cui l'autore stesso riesce a porsi, sia pur relativamente, in rapporto con quel mondo circostante che sembra escluderlo, eludendolo.
La costante di un insopportabile grigiore del quotidiano vissuto e ristretto nei margini di un piccolo ambiente, in quella che amiamo definire genericamente la società dei consumi, tormenta Andrea Costa, lo rimpicciolisce nei termini di un dolore senza riparo e senza misericordia. Sicché "l'erba cattiva" della sua reazione piuttosto violenta ad un'esistenza priva di gratificazione, i sentimenti di opposizione che nascono da un malcelato scontento a cui non vede riparo, lo fanno scontroso, poco simpatico, distante dalla gente comune, lo rendono muto fra i parlanti senza costrutto, che rifiutano il dialogo ed il colloquio, al punto ch'egli trova solo in sé stesso un'occasione di vivibilità, di appartenenza alla vita, alle emozioni, ai sentimenti, che riesce a realizzare negli atti di bontà, nella purezza della parola scritta, del verso, per acquisire una dimensione superiore, un'aura diversa e conveniente che lo rende accettabile a se stesso e lo sappia conciliare col mondo degli uomini, con la società, in qualche modo.
Leggiamo, a proposito della lirica intitolata "Trentuno", l'inquietudine che lo tormenta e non gli lascia alcuna speranza di salvezza, dove dice: "Ho sempre la stessa fame di libertà, | gli occhi mi si gonfiano ad ogni sussulto del cuore, | il corpo è greve e posticcio alla mia anima, zavorra. | È solo questo corpo che mi impedisce di volare | è solo questa mente che mi impedisce di sognare. | Piango | e vorrei ridere di questa vita e di me stesso. | Forse sono diventato adulto | e non riesco più a sorridere." (p. 23).
È chiaro che un cupo sentimento dell'umano destino, un velame di pessimismo, un senso di solitudine per il momento insuperabile, offuscano lo scrittore, lo portano a rivedere gli eventi del passato, a riconoscere il valore delle cose perdute, a guardare al presente con tanta malinconia. Eppure, si tratta di ritmi di passaggio, laddove la realtà contrasta la nostra capacità progettuale e ci si sente afferrati da quella sensazione di impotenza che tanto peso acquista negli anni giovani.

Giuseppina Luongo Bartolini