Raoul e altre storie

di Mario Verdone

Recensione di Marco Alessandri

Per un autore come Mario Verdone, che ha percorso con instancabile piglio di sperimentatore le strade impervie e affascinanti dei più diversi generi di scrittura, la prosa narrativa ha costituito, fin dall'adolescenza, una parte rilevante dell'impegno creativo; ed ora, alla già ricca messe di titoli, che ricordiamo spaziano dalla lirica al teatro, si va ad aggiungere il prezioso volume di racconti: "RAOUL e altre storie", edito da Fermenti.
La familiarità di Verdone con la misura breve, appassionata memoria delle lunghe e meditate letture futuriste, si concretizza nella sua 'poiesi' con una naturale propensione al racconto, dove appare necessaria l'utilizzazione di una rigorosa extra-testualità ad un'altrettanto rigorosa monotematicità, fattori questi imposti da un genere che obbliga lo scrittore al continuo reperimento di 'idee forti'. Tuttavia la costante ricerca della brevità non priva le vicende narrate di un solido tessuto metaforico e simbolico, in cui il tempo bergsonianamente si fa durata nello spazio interiore del personaggio e nell'immaginario del lettore, con rallentamenti contemplativi e improvvise accelerazioni di ritmo. È l'atmosfera sospesa che si respira nel racconto d'apertura: "Le rose di Chopin" (dalla prima sezione 'Raoul') che vede, come incantato e sognante scenario, il parigino cimitero di Pére Lachaise o il procedere ansioso della ricerca mnemonica nel racconto "La ragazza dell'Academy", dove lo stratificarsi frammentario e caotico delle percezioni compone il mosaico incerto dell'esistenza emotiva:

«...Passavano le immagini: mezzo volto in luce e mezzo in ombra, un corpo di spalle, una silhouette, una faccia dietro una finestra, un'altra immagine schiacciata, sfumata, annebbiata; e poi i piedi che camminavano, l'orecchio in ascolto, un occhio vigile, parte del corpo affondato in una vasca da bagno col bimbo che cercava di attaccarsi al seno, perdendo sempre il capezzolo, tentando di ritrovarlo. Questa dunque era la Sylvia che restava, con le sue frasi smozzicate, le parole in libertà su una riga di macchina da scrivere, il verso interrotto... Il film documento, stile-documentario, di una vita, e di un poema, scorreva, senza dare -ma forse era possibile col cinema? - un'immagine precisa, non approssimativa».

Questa tecnica, oserei dire, cinematografica, ricorda quasi la fotodinamica di Anton Giulio Bragaglia, volta a favorire l'intuizione degli stati inter-movimentali di un corpo, ad evocare la sua non facilmente prevedibile traiettoria spaziale.
La tensione metaforica sottesa alle immagini sublima a volte in allegoria, che si tratti di malinconici e suadenti squarci paesaggistici o di provinciali scenari cittadini, dove una festa popolare può epifanicamente rivelare l'esistenza di un'umanità ancora aperta ad una gioia dal sapore semplice, arcaico e, per questo, autentico. Si è a tratti di fronte ad un procedere pascoliano, quando l' "hortus conclusus" delle proprie certezze domestiche, celate nell'amenità di un quadro agreste, si carica di profonde valenze simboliche, come se il microcosmo della quotidianità altro non sia che il riflesso, dimesso e rassicurante, di un macrocosmo di valori universali:

«...Dal pino Assunta cadevano pigne e pinoli. Ne aveva raccolti una ciotola e li aveva sotterrati in un grande vaso di terracotta, clic costantemente annaffiava. Dopo alcuni giorni i pinòli si erano aperti ed erano spuntati dei corti fili. Quelli più avanzati già si allargavano come corolle, come stelle marine color verde, in armoniosi disegni. Bastava che maturassero un po'. Li avrebbe poi fatti trapiantare. Ma forse non li avrebbe visti crescere» (I lacci dell'edera).

In Mario Verdone c'è la rara capacità di disegnare psicologie, non solo attraverso l'abile tratteggio somatico e caratteriale del personaggio, segno di raffinata e sintetica diegesi, ma anche mettendo a frutto una spiccata componente mimetica, con dialoghi serrati e di impatto realistico. Ed è l'indubbia qualità dei racconti d'ambientazione senese come: "La reggia di Valentina", "Geometrie", "Una ragazza che non s'è sposata"; storie che ricordano la penetrante espressività di Federigo Tozzi, evocato non solo nella misura dei romanzi maggiori, ma soprattutto nella dimensione, forse meno conosciuta e tuttavia non meno grande, delle prose di 'Bestie' e dei racconti di 'Novale'. Con rapidi tocchi caratterizzanti si plasmano sulla pagina figure umane spesso soffocate dal grigiore d'un'esistenza ripetitiva, vittime di un destino discretamente insinuato tra le pieghe della normalità abitudinaria, ma altrettanto inesorabile e crudele. Si leggano attentamente le vicende di Cesira (protagonista di "Una ragazza che non s'è sposata") e di Valentina, dall'omonimo racconto:

«...Gli anni erano passati. Gli uomini non si erano interessati a lei. Stava vicino al vecchio Monsignore, al Ricreatorio, come un pulcino vicino alla chioccia. I genitori, invecchiati, si erano ammalati, uno dopo l'altro. Li aveva assistiti. Era rimasta sola. Alzava gli occhi verso gli archi gotici, bianchi e neri, del Duomo, che si incrociavano. Sola, ma non infelice.
Perché doveva lamentarsi, si chiedeva, se le era toccata quella sorte invece di un'altra, se non aveva avuto molto da scegliere, se durante le sue giornate grige di lavoro, in un Ospedale antico, quasi lugubre, passava lungo le corsie, e non vedeva che malati pallidi nei letti».

Anche quando l'ambientazione abbandona l'angustia provinciale e si apre a più vasti orizzonti, Verdone non viene meno al suo personalissimo acume descrittivo, capace di estenuare i paesaggi in morbide tonalità autunnali, come nel brano "Le foglie rosse", o di sondare delicatamente i fragili sussulti della psicologia adolescenziale, per questo valga il racconto "L'imbroglio", dove il ritratto della protagonista Annette ci richiama alla mente le migliori pagine di T. Mann e di Zweig:

«...Osservavo quel gruppo trasognato, silenzioso, quasi soggetto da ritrattista, e la maniera nervosa, un po' esaltata, con cui la fanciulla accarezzava ogni gatto o cane che si avvicinava, con una irrequietezza che la spingeva ad iniziare cose che poi non portava mai a termine. Anche la lettura del libro di poesie che aveva con sé non riusciva a catturarne in pieno l'attenzione...».

Non mancano momenti in cui il rivelarsi inatteso di aspetti inquietanti e oscuri della personalità crei attimi di intensa drammaticità, come in "Maschera di piombo":

«...Oregon ebbe un sobbalzo al cuore perché le apparve dinanzi un nuovo personaggio, che aveva sospettato, ma di cui non era del tutto sicuro: era una taccia color piombo, con ciglia bianche. I ricci e fiocchi di carta erano diventati capelli. Gli apparve, quel volto, come una medusa, incapace, di per sé, di fare del male, ma con un destino che poteva essere anche malefico, contro la propria volontà, certamente, e non per se stessa. Ma per chi osava avvicinarsi e guardarla...».

E la maschera, pirandellianamente intesa come velo occultante l'essenza più profonda dell'individuo, rovescia improvvisamente la sua funzione simbolicamente omologante, per trasformarsi, come sosteneva Michail Bachtin, in un illuminante specchio di verità inconsce.
Verdone si dimostra, quindi, autore attento ad affinare le sue facoltà percettive, al fine di cogliere i segnali che a noi giungono dall'universo del quotidiano, caotico e stereotipato al contempo. E, se è vero che "l'artista -come sosteneva Viktor Sklovskij - è sempre l'istigatore della rivolta degli oggetti che insorgono, gettando via da sé i vecchi nomi ed assumendo un nome nuovo, un nuovo aspetto", allora l'autore di "RAOUL e altre storie" incarna pienamente questo ruolo, riuscendo a estrarre l'oggetto dalla serie delle associazioni consuete, per fargli compiere un vero spostamento semantico, carico di significative implicazioni; al riguardo ritengo emblematico il racconto "La finestra":

«...Più tardi la finestra rimase a lungo chiusa e più nessuno venne ad affacciarsi o ad esporre coperte e lenzuola. Dov'era finito il vecchio?
Ora vedo - quando ritorno sull'Appia Antica - i piccoli vasi e le cassettine di gerani. A primavera non mancheranno colori festosi. La vita della finestra continuerà, tra un inquilino e l'altro, tra un aprire e un chiudere...».

Dunque Mario Verdone si muove con ferma consapevolezza stilistica sul terreno insidioso della narratività mostrandosi profondamente conscio del sottile legame psicologico che pone in contatto lo scrittore ed il lettore e della necessità presente in ogni individuo di inventare o fruire di storie in cui proiettarsi e rivivere perché "...Siamo tutti alla finestra ad aspettare. Siamo tutti passanti curiosi, osservatori e osservati".

Marco Alessandri