Pare davvero che le vicende italiane siano regolate dai cicli vichiani. Regolarmente, ad una fase di estrema politicizzazione ne segue una di depoliticizzazione, tanto che termini come « ideologia », « politica » e simili, che una volta erano sulla bocca di tutti i soggetti che della politica avevano fatto il loro fine esistenziale, che avevano dato una certa nota alla cultura nel suo insieme, oggi hanno acquistato una sfumatura addirittura in certi casi negativa.
Non più di tre anni fa al primo posto c'era assolutamente la politica. Dire « la politica è una cosa sporca » (v'erano compendiati vent'anni di fascismo in questa frase) equivaleva a farsi togliere per lo meno il saluto, se non essere additati al pubblico ludibrio.
Oggi dopo la grande intuizione (peraltro di genuina matrice maoista) del «privato politico» — che poteva essere una parola d'ordine assai sofisticata se usata in un contesto politicamente « vincente » — ci stiamo accorgendo che il privato politico è andato a parare in un'ondata rivendicazionistica di quel certo particolare dove l'io è diventato tutto e il resto non conta niente. Beffa atroce per una generazione (ci sono pure io in mezzo) che parlava solo in termini di massa: lotta di massa, legami con le masse, stare in mezzo alle masse. Ne è subentrata una che parla solo di sé: la sua sofferenza, la sua disperazione, la sua paranoia. La paranoia in particolare pare aver dato il « la » a tutte le pieghe di questo vivere: dovunque uno si volta, va in « paranoia ».
Praticamente la retorica del rivoluzionario ha lasciato il posto al pianto di tutti i disperati d'Italia e i legami con le masse sono diventati l'autonomia poliziesca di uno della miriade di « nuclei » « ronde » « guardie », vigilatori « territoriali », « di quartiere », di città di paese e così via, dove una certa terminologia militaresca s'è accoppiata con quella urbanistica. Salvo che tali legami non vengano poi aborriti, e l'alternativa al sistema non sia più la creazione dell « contro », ma il linguaggio mortuario dell'eroina.
Ma l'umore genuino del momento che stiamo attraversando, mezzo travoltino, mezzo brigatista, mi pareva compendiato in una notizia di qualche tempo fa, che i giornali — tutti intenti a disquisire e a valutare l'importanza storica dell'antileninismo craxiano e del revival adulterino — hanno ritenuto di nessuna o poca importanza: su un trafiletto di Repubblica, un Nucleo Stravolto Clandestino rivendicava non so più che incursione in una fabbrica di tessuti. Qui la disperazione degli « stravoltini » ohe vagano la sera per ila città unita ad una certa {e triste) dose di goliardia, sembrano convivere: è su questo panorama che si innesta la grande polemica sul qualunquismo che caratterizza la fine dei seventies, degli anni 70. Sono passati esattamente dieci anni da quella Data (evito di nominarla) e ci siamo ridotti a dover fare i conti coi grado di qualunquismo delle generazioni vecchie e nuove. Unico, consolante dato, questo qualunquismo è assai meno qualunquista di quanto non si vorrebbe far credere.
Sere fa un'amica francese mi raccontava delle sue sensazioni dell'Italia attuale. Secondo lei perfino questo periodo di bassa le sembrava molto più effervescente della situazione francese, meno acquiescente nei confronti della realtà contingente.
Scriveva Giorgio Galli su Repubblica (24-12-1978) a proposito dei « compagni che ballano » che ha scoperto e riscoperto la discoteca) che « questo fenomeno non può essere assunto come dato permanente (...) Se la generazione beat nell'Italia in sviluppo ha prodotto le occupazioni delle Università e i cortei, la generazione travoltista potrebbe trovare un futuro interesse politico nell'Italia stagnante, attraverso comportamenti di cui è difficile valutare la portata ».
Anche Galli parla della ciclicità della situazione italiana. Ma io non sarei così fatalisticamente certo nel predeterminare la certezza degli accadimenti nel « futuro politico». Nulla avviene per nulla. La ciclicità degli avvenimenti italiani è dovuta a precise scadenze e a nodi politici ogni volta venuti al pettine senza riuscire mai a rompere i denti dell' « Italia stagnante »: ogni volta i movimenti di rivolta sono stati riassorbiti (il terrorismo armato è solo un dato di estrema debolezza politica). l'I problema dunque resta la reale creazione del « contropotere ». ma non sulla base degli slogans e dell'approssimazione del dilettantismo cosiddetto «creativo». In effetti la raffica di slogan come la «fantasia al potere » qui da noi è stata una delle ultimissime scoperte. Quando in Italia iniziava il discorso sulla creatività, il 68 francese era già da tempo bell'e morto e sepolto: qui crollava invece l'utopia delle « sinistre al potere ».
Quando la gioia e la politica tentano un incontro, pare che resti la voglia di giocare e se ne vada quella della politica. Significativo, dato che non siamo ai tempi delle lotte fra Comuni e Barbarossa ma nel 1979. Illudersi che i girotondi degli indiani metropolitani fossero così eversori da rovesciare la borghesia era perlomeno naif.
I « falansteri » sono scomparsi (o mai realizzati) da tempo. Gli indiani (senza penne) pure: le utopie restano. La borghesia riveduta, corretta, ballerina e dipinta in faccia è rimasta anch'essa.
Vanni De Simone