Giacomo Leopardi una lettura infinita (Milano, I.P.L., 1989, pp. 208) e Leopardi nella critica dell'Otto e del Novecento (Roma, Ed. Studium, 1989, pp. 272) sono due opere di Alberto Frattini che fanno seguito al suo Giacomo Leopardi del 1986 (Roma, Ed. Studium), sul quale intervistammo l'autore in «Fermenti», n. 192-193 (ottobre-novembre 1987). Dopo tali opere è apparsa la quinta edizione dei Canti a cura del Frattini, integrata e aggiornata con la collaborazione di E. Giordano (Brescia, Ed.ce La Scuola, 1990, pp. 734). L'Editrice Studium ha intanto pubblicato Giacomo Leopardi e noi - La vertigine cosmica, il volume degli Atti del Convegno leopardiano svoltosi nel 1987 in Ancona, del quale Frattini fu il coordinatore scientìfico. Sta inoltre per uscire il volume collettaneo, curato dallo stesso, Leopardi e le fonti (Roma, ed. Coletti) mentre è in preparazione, nella collana «Paso doble» (diretta da G. Weiss e V. Riviello) Frattini-Leopardi (Roma, Ed. Il Ventaglio). Chiediamo a Frattini: quali le ragioni di questo suo straordinario coinvolgimento nello studio del grande poeta?
Il mio particolare interesse per Leopardi ha le sue radici nel primo incontro con la sua poesia verso la fine degli anni Trenta, nel periodo dei miei studi fiorentini. Trasferitosi a Roma nel 1940, al Recanatese dedicai le mie due tesi di laurea, in Lettere (su «Leopardi e Rousseau», 1945), e in Filosofia («L'eudemonismo pessimistico dell'etica leopardiana», 1946), che mi sollecitarono all'approfondimento del poeta nelle interrelate dimensioni della cultura e del pensiero, come propedeutica allo studio analitico dei Canti, di cui, nel 1956, avviai il commento, pubblicato dall'Ed.ce La Scuola nel 1960. L'opera recentissima, da me ideata e strutturata (per iniziativa dell'editore Coletti), Leopardi e le fonti, risponde all'esigenza di un ulteriore e organico scavo sul formidabile underground dell'invenzione leopardiana, mentre il Convegno anconetano del 1987 — sul tema «Leopardi e noi in prospettiva Duemila» (di cui ora sono disponibili gli Atti) — propose una lettura avanzata di Leopardi in cui, sui poli della fondamentale dialettica poesia-pensiero, si colgano le specifiche tensioni e i vitali contrasti di una mente acutissima che, scavando con potenza e competenza inconfrontabili sull'eredità dell'antico e sulla situazione del moderno, appare affascinato dai giganteschi progressi della scienza e della tecnica, ma sgomento di fronte alle esiziali conseguenze del macchinismo, del produttivismo, dell'appiattimento e reificazione dell'uomo, che pur non escludono, anzi fanatizzano la sua inguaribile e folle volontà di potenza, di prevaricazione, di distruzione; Leopardi resta comunque apertissimo alle problematiche dell'avvenire. Quanto alla collana «Paso doble», originale iniziativa ideata per mettere a confronto, su una provocante ipotesi di affinità e di «liaisons littéraires», poeti del passato e poeti d'oggi (sono già apparsi Raboni-Manzoni, Sanguinetti-Pascoli, Roversi-Giacomi, Bonaviri-Gianelli, Weiss-Boito, per ricordare alcuni testi) mi ha offerto l'occasione di entrare «in ballo» con Leopardi, l'autore che più ha inciso sul mio lavoro di italianista, segnando di segreti lieviti anche la mia poesia.
L'attenzione critica di Frattini oltre che ad altri grandi poeti dell'Ottocento — dal Foscolo al Manzoni — si è costantemente rivolta alla poesia italiana del Novecento (si veda, fra l'altro, la sua antologia Poeti italiani del XX secolo [apprestata in collaborazione con P. Tuscano] di cui «La Scuola Editrice» ha pubblicato, nel 1988, la quarta edizione). In quale rapporto si pone il suo interesse per questa area di studi con l'altra incentrata su Leopardi?
Nessi e osmosi tra i grandi poeti del passato e quelli moderni e contemporanei hanno da tempo sollecitato i miei studi anche in ricerche particolari, come quelle sul «dantismo» di Rebora e sulla presenza di S. Francesco in Rebora e Fallacara, mentre l'attenzione al leopardismo si allarga dai minori dell'Ottocento, come Cesare Betteloni, ai grandi poeti del nostro secolo come Ungaretti. Mi accorsi presto dell'enorme potenziale di fecondazione implicito nel poeta dei Canti, anche in rapporto all'orizzonte europeo (tema che approfondii nello studio su L'imagination créatrice dans la pensée de Leopardi, presentato ad un incontro di poeti e critici europei a Poigny-la-Forêt, nell'ottobre 1970 e pubblicato nel volume degli Atti, L'imagination créatrice, Nauchâtel, ed. de la Baconnière, 1971) ma soprattutto in relazione al rinnovamento del nostro Parnaso novecentesco. Leopardi mi ha fornito così illuminanti indicazioni per l'approccio alla poesia del nostro secolo, come l'inequivocabile chiarimento che poesia autentica non può nascere che da ragioni dell'anima e dal rifiuto di poetiche prefabbricate e sofisticazioni manieristiche, dato che il fulcro della creatività di chi scrive e della bellezza espressiva non può essere che l'infrazione, la perpetua disubbidienza a ogni sorta di codice, formale, estetico, ideologico, che coarti la libertà della fantasia, del sentimento, della coscienza.
Di grande importanza, per l'attuale fortuna del Recanatese nel mondo, è il problema delle traduzioni che se ne apprestano. Nell'anno del centocinquantenario Romano Giochetti dava notizie, su «Epoca», dell'interesse in U.S.A. per l'autore dei Canti, riconosciuto tra i più grandi poeti del mondo, ma con ricorrenti incertezze sui rapporti tra il pensatore e il poeta, sulle sue possibili parentele con i grandi del passato, e soprattutto sui modi del tradurlo che, dai risultati sinora ottenuti, farebbero prevedere, per ulteriori prove, addirittura un «massacro». Che cosa ne pensa?
Il problema delle traduzioni dedicate a Leopardi è vasto e complesso, come è emerso da importanti Convegni (a Trento, e a Recanati) su di esso impostati. Giachetti, nell'articolo ricordato, si soffermava — con verifiche testuali — sulle difficoltà del tradurre Leopardi in lingua inglese, con buone ragioni nel rilevare non solo e non tanto certi travisamenti semantici, ma la perdita del valore-effetto poetico in certi luoghi delle versioni. Il discorso potrebbe estendersi anche alle traduzioni in altre lingue, dal francese allo spagnolo al tedesco (una lingua che il Recanatese non possedeva ma sulla quale fa, nello Zibaldone acute osservazioni, rilevandone la libertà, la forza, e il potenziale di «indefinitezza», così importante — secondo Leopardi — per l'espressione poetica). Fra i testi utili a studiare aspetti ed esiti delle poesie di Leopardi in varie lingue segnalo due pubblicazioni del Centro nazionale di Studi leopardiani in Recanati, L'Infinito nel mondo (1988) — dove si raccolgono traduzioni del celebre idillio nella lingua di moltissimi paesi, dalla Spagna alla Russia, dalla Francia al Giappone, dalla Germania al Mozambico — e L'Infinito A Silvia A se stesso in inglese, a cura di G. Singh (Ancona-Bologna, «Il Lavoro Editoriale», 1990, pp. 126). Il nocciolo dell'ardua questione del tradurre mi sembra centrato dal Leopardi in una nota dello Zibaldone (pp. 2134-2135 dell'autografo): «La perfezione della traduzione consiste in questo, che l'autore tradotto, non sia, per esempio, greco in italiano, greco o francese in tedesco, ma tale in italiano o in tedesco, quale egli è in greco o in francese. Questo è difficile, questo è ciò che non in tutte le lingue è possibile».
Anche sulle vicende biografiche e sulle «disgrazie», non solo in vita, del Leopardi non sono mancati nuovi contributi, come le Storie di casa Leopardi, di Mario Picchi, opera pubblicata nel 1985 dall'ed.ce Camunia e ora ripresa da Rizzoli nella B. U.R. Testimonianze interessanti ci vengono anche dall'epistolario di Paolina Leopardi, Io voglio il biancospino (Milano, ed. Archinto, 1990, pp. 104). Nelle lettere alle amiche Brighenti la sorella di Giacomo indugia spesso, come il poeta, sull'angoscia di vivere in un «borgo» così chiuso e retrivo. Ma Leopardi, se fosse vìssuto in una città più viva e aperta, sarebbe diventato ugualmente il poeta dell'Infinito
Storie di casa Leopardi è un'ampia e vivace ricostruzione che riguarda soprattutto le vicende talora sconcertanti che divisero la critica italiana, dopo la morte del poeta, tra studiosi e leopardisti di avverse fazioni, in particolare tra i fautori di Antonio Ranieri — la cui opera Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi rappresenta forse la peggiore sventura postuma del Recanatese — e i sostenitori della famiglia Leopardi, che si adoperò per tutelare l'immagine del grande congiunto. Quanto all'epistolario della sorella, Io voglio il biancospino, è l'accorata quarantennale testimonianza di Paolina che, segregata quasi per l'intera vita nel suo aborrito paese, sente tarpare le ali — soprattutto dal sospettoso controllo della madre — al suo ardente desiderio di scoprire la vita e il mondo. Una situazione per certi aspetti analoga a quella del grande fratello, che pure potè vivere e operare in città importanti e diverse. La sua origine e formazione in Recanati, e le particolari condizioni familiari, certo incisero sulla sua opera, ma non solo e sempre in negativo (il penoso senso di costrizione ambientale ed esistenziale dà forza alla mirabile espansione del suo pensiero e della sua poesia). È dunque impossibile fare ipotesi: anche la storia di un genio è strettamente legata alle condizioni, al tempo, ai luoghi, a casi e circostanze che gli riserva il destino.
Nonostante la sterminata bibliografia critica di cui disponiamo per Leopardi, quali contributi e iniziative possono ancora auspicarsi per favorire e aggiornare l'approfondimento della sua opera ?
C'è anche chi ritiene oggi che il continente Leopardi sia stato ormai esplorato in modo esaustivo: è impressione affrettata di incompetenti. Sul Leopardi il Duemila continuerà a scavare con sorprendenti frutti. Sarebbero pertanto auspicabili iniziative volte ad aggiornare costantemente gli studiosi sui contributi dedicati al Leopardi non solo in Europa ma in ogni parte del mondo: dai paesi slavi alla Cina, dal Sud America al Giappone. Molto utile risulterebbe un periodico, magari semestrale, in cui si registrassero anche le tesi di laurea che si discutono, in Italia e all'estero, sul Leopardi.
Per ritomare al suo lavoro, ricordato all'inizio, Leopardi nella critica dell'Otto e del Novecento, quale differenza può cogliersi fra le interpretazioni ottocentesche e quelle del nostro secolo? Tra i contributi recentissimi quello di Emanuele Severino, Il nulla e la poesia alla fine dell'età della tecnica: Leopardi (Milano, Rizzoli, 1990, pp. 350) susciterà certo nuovi dibattiti. Quali sono le sue impressioni, a caldo, su questa opera?
Nella critica dell'Ottocento sul Leopardi Francesco De Sanctis ha un rilievo fondamentale. Ma il grande maestro irpinate non conosceva lo Zibaldone, base indispensabile per ricostruire analiticamente il pensiero leopardiano. Nel nostro secolo si sono maturati importanti contributi sia per intendere il Leopardi filosofo (G. Gentile, A Tilgher, C. Luporini, C. Nifosì, R. Amerio, S. Timpanaro, B. Biral, C. Ferrucci) sia per rivalutare adeguatamente il filologo (S. Timpanaro), mentre leopardisti come W. Binni, N. Sapegno, S. Solmi, P. Bigongiari, A. Monteverdi, C. Galimberti, A. Tartaro, hanno dato apporti talora eccellenti — entro diverse angolazioni ideologiche e metodologiche — per ripensare l'intera opera leopardiana, in verso e in prosa, e rivelarne nuovi segreti. Oggi, dopo il 1989 — anno esplosivo della perestrojka e memorabile per la storia d'Europa e della stessa civiltà — meglio può intendersi del Leopardi, entro un'altissima lezione di umanità, la straordinaria preveggenza, che va al di là di ogni letto di Procuste di segno sociopolitico. È quanto può verificarsi anche nell'opera di Emanuele Severino, uno dei nostri «maìtres à penser» emergenti, che in essa ha riesaminato, con esemplare attenzione ai testi e al linguaggio, il pensiero del Leopardi nelle sue matrici antiche e moderne, ma anche nei suoi più arditi sviluppi, sino a contrapporsi alla linea di fondo della tradizione speculativa occidentale: «È il primo a chiarire — afferma lo studioso in una intervista su questa sua opera («L'Espresso», 21 ottobre 1990) — che la verità consiste nella visione dell'instabilità assoluta, e che dunque la verità ci perde, ci rende infelici. È il primo pensatore moderno, giacché nega l'incorrutibilità di qualsiasi «sistema», Dio in primo luogo anticipando così di cinquant'anni i temi di Nietzsche e di cento quelli di Heidegger». Di qui il dissenso con chi aveva accostato Leopardi a Marx: «Quest'ultimo rappresenta sì uno dei primi modi di contrapporsi alla tradizione pratico-teorica dell'Occidente, ma Leopardi fa ben di più: istituisce la dimensione del contemporaneo, sapendo benissimo che la fonte da cui tutto scaturisce sono i greci: Parmenide, Eraclito, Anassimandro, e quel perno d'oro che è Eschilo». Aspetti e problemi di fondo nel pensiero del Recanatese — come la teoria edonistica e quella eudemonistica, la noia, l'illusione, l'infinito, il nulla — erano stati già affrontati anche in opere sistematiche e con risultati non trascurabili. La novità di Severino consiste nell'aver focalizzato l'intera rilettura di Leopardi (questo primo volume sarà integrato da un secondo), quasi in uno strenuo «corpo a corpo» con i testi, su una visione in cui il pensiero del Recanatese — a contrasto con i paradisi della tecnotronica che ancora si innervano sul miraggio delle «magnifiche sorti e progressive» — s'incontra sulla vocazione al Nulla e alla Follia propria dell'uomo d'Occidente. Una prospettiva tanto perentoria quanto provocante che innesca drammatici interrogativi: per questo è destinata a lasciare un segno.
a cura di Velio Carratoni