Per poesia contemporanea italiana intendo quella poesia che ha simultaneamente innestato le scoperte della poesia europea moderna (leggi avanguardie storiche) con i caratteri peculiari della poesia tradizionale, intendendo per tradizione quell'insieme di innovazioni linguistiche che costituiscono il tessuto strutturale della poesia (e della lingua italiana) quale si è costituito nella storia.
Allora, secondo te, non dovrebbe esìstere alcun conflitto tra avanguardia e tradizione?Secondo me il conflitto esiste quando l'avanguardia e lo sperimentalismo s'impongono dall'esterno e con circa sessanta anni di ritardo sopra una linea di poesia tradizionale, intesa passivamente e come prerogativa di certi gruppi egemonici della stessa poesia. Né gli uni e né gli altri possono portare avanti un discorso poetico autenticamente originale. In Montale, per esempio, c'è tutta la poesia tradizionale dell'ultimo ottocento e del primo novecento (Pascoli-Sbarbaro-Gozzano-D'Annunzio senza parlare di Petrarca e dell'influenza di Eliot).
Potresti parlarmi del tuo caso nell'ambito della poesia italiana di oggi?Secondo alcuni critici, che andavano e vanno per la maggiore, (Emilio Cecchi, Carlo Bo, Giuseppe Villaroel, Oreste Macrì e altri, fra anziani e giovani), la mia poesia, di matrice francese e, nello stesso tempo, greca, sfugge ai canoni della critica ufficiale italiana. Per poter capire e giudicare la mia poesia bisogna partire, (come diceva Gide), dai greci, passare attraverso Virgilio, Dante, Petrarca, Baudelaire, Rimbaud, Mallarmè, Valéry, Apollinaire e scoprire gli apporti più originali della poesia spagnola e della poesia espressionistica tedesca. Un intreccio complesso che sfugge alla mania che hanno i critici accademici e militanti di incasellare agevolmente un poeta e d'ignorare il poeta che sfugge ad essere collocato in un loculo precostituito. Sono convinto di avere rinnovato dall'interno la poesia italiana non soltanto attraverso l'immedesimazione con la lirica greca, ma attraverso l'imagismo, il magismo, l'analogismo e la presenza di più poetiche, elaborate in circa cinquant'anni di ricerca e di creazione. Benché abbia una ricca bibliografia scritta sulla mia opera, i poeti, gli scrittori e i critici che mi hanno letto, compreso e giudicato con immediato e meditato criterio critico sono stati: Corrado Govoni, Massimo Bontempelli, Giacomo Natta, Jean Chuzeville, Giacomo Debenedetti, Giuseppe Aventi, Renè Mejean, e fra i giovani, Pietro Cimatti. Questa è la ragione per cui sono stato escluso dalle antologie più importanti che siano apparse in Italia.
Ma esiste di fatto un conflitto tra i critici e la tua persona?Devo dire subito di sì. Sin dal 1950, collaborando alla rivista « Iniziative », commisi ingenuamente l'errore di dire la verità sulla posizione morale e culturale di quasi tutti i critici militanti e no di quell'epoca. Lo spunto mi fu suggerito dal fatto che Giovanni Verga, Tozzi e Svevo erano stati scoperti, essendo grandi scrittori da altrettanti grandi scrittori stranieri quali il Faulkner e Joice. C'era stato anche il caso Campana, al quale non fu più restituito da Soffici il manoscritto de « I canti Orfici ». Il povero Campana dovette rifare ex novo l'intera opera a memoria e ciò, io penso, contribuì molto ad aggravare il suo stato mentale. Devo perciò confessare che la mia requisitoria nei riguardi dei critici fu decisamente ingenua, generica e un po' affrettata; non pensai, lì per lì, che mi sarei inimicato tutto il ricco nucleo di critici, che in fondo stimavo e che ebbi la debolezza di presentarli, sotto forma di elenco, come responsabili di un certo costume fazioso, per non dire mafioso. Intuii, però, che molte ingiustizie erano state commesse e che la critica ufficiale continuava a commettere nei riguardi di molti scrittori: — Bruno Barilli, in miseria, muore solo e appena conosciuto da una ristretta cerchia di amici; Giacomo Natta, completamente ignorato, morirà solo e in miseria; il poeta Camillo Sbarbaro, ritiratosi in solitudine e letteralmente ignorato dai lettori di poesia, muore a Spotorno, Antonio Delfini, dopo aver sperato, consapevole del suo talento, per più anni il premio Viareggio, muore di crepacuore a Modena. Corrado Govoni, lasciato solo nella povertà, nel discredito più cinico, muore di dolore a Pome-zia. Dino Campana muore impazzito in manicomio. Giacomo Debenedetti, a cui gli accademici gli rifiutano la cattedra di letteratura italiana contemporanea, morirà d'infarto qualche giorno dopo aver saputo l'esito del concorso a cattedra. Precedentemente Massimo Bontempelli, costretto a dimettersi da senatore comunista, muore nel quasi disprezzo degli scrittori militanti e antifascisti. Di lui si disse che in qualità di accademico d'Italia era stato scelto come guardia d'onore ai caduti nella rivoluzione fascista. Ultime vittime di questo malcostume critico ed editoriale sono state Tommaso di Lampedusa, la cui opera « Il Gattopardo » fu rifiutata da Elio Vittorini consulente editoriale della Casa Editrice Mondadori; il poeta Calogero, suicidatosi in un paesino della Calabria fu ignorato da quasi tutta la crìtica militante; lo scrittore Morselli, suicida per essere stato messo al bando dai consiglieri editoriali delle varie Case Editrici; Marcello Landi, emarginato, ricoverato in casa di cura.
Di Moravia mi limiterò a dire che è un buon narratore ma un accorto e zelante amministratore di quella politica culturale che in Italia promette quattrini e potere. Di Montale, malgrado abbia vinto il premio Nobel, penso che non sia andato aldilà di una poesia fondata sui presupposti di un pessimismo di maniera voglio dire di un pessimismo prefabbricato e non sostenuto da una reale esperienza esistenziale, né da una visione leopardianamente profonda del mondo. Si è parlato di aridità, di processo nullificante, di un mondo che approda al niente: parole che fanno colpo su quella media e piccola borghesia come crede serio chi. verseggia in modo tetro e con una cadenza che ha generato, in Italia, tanti poetini montaliani. Da Leopardi, ultimo grande petrarchista, non escono né epigoni, né leopardiani. Di Ungaretti, che Gide definì scherzosamente un modesto suonatore di flauto, epigono di Apollinaire e di Valéry, resta qualche folgorazione e un potente istinto di arrivismo. Non esitò a servirsi di Mussolini per imporsi come poeta ufficiale, come professore di letteratura italiana, nominato per chiara fama e, per ultimo, eletto Accademico d'Italia. Comunque, Ungaretti, da un punto di vista poetico, possiede una certa freschezza e un autentico abbandono lirico che lo distingue da Montale. Dei tre poeti, il più umano e senza dubbio il più legato sia al mondo antico che al mondo moderno fu Salvatore Quasimodo, poeta ricco di patos greco e di magia tutta contemporanea. A tal proposito devo dire che dei tre poeti il più benevolo nei miei riguardi (aveva di me un'autentica e sincera stima) fu precisamente Quasimodo. Montale, che curò la edizione del mio poemetto « Mia figlia innamorata » presso l'editore Del Duca, per il semplice fatto che non avevo accettato tutti i suoi tagli segnati sulla mia opera si oppose in modo accanito contro Cecchi perché non mi venisse assegnato il premio Marzotto del 1961, Ungaretti, sul conto del quale c'era stata una polemica a proposito del giudizio di Gide apparso sulla « Fiera Letteraria », polemica sostenuta tra me e Leone Piccioni, per ben due volte si oppose in modo quasi rabbioso perché non mi venisse assegnato il premio Viareggio del 1958 — premio proposto da Giacomo Debenedetti — con l'opera « Adagio Quotidiano » — e il premio Viareggio 1960 con l'opera « Mia figlia innamorata » che ottenne nove voti su dodici. Questi due poeti, che segretamente mi stimavano, facili ai risentimenti e alle invidie, si vendicarono mettendomi nelle condizioni di non trovare un editore di importanza nazionale, che avesse pubblicato le mie trenta opere poetiche, di cui circa dieci premiate con premi nazionali importanti. (Premio Etna Taormina per l'opera prima nel 1951; premio Chianciano del 1953; premio nazionale Avezzano 1958; medaglia d'oro del Presidente della Repubblica al premio Caffè 1965; premio Pisa 1965; premio Casalinuovo 1968; premio Città di Capua 1973; altri premi: Coppa del decennale; Babuino d'argento; premio Siracusa.
Nei lirici di ieri c'era un più rigoroso e diciamo sterile ossequio a una tradizione considerata come una monotona continuità di certi motivi intimistici e direi quasi privati. Essi non scoprirono la potenza poetica della lingua, del linguaggio e della parola. Gli innovatori, in verità, ben pochi, gravitano intorno o a Pound, Eliot, Apollinare, Tzara, Eluard o a Renè Char. Si è passato da un eccesso all'altro senza che si sia sviluppata quella che Leopardi considerava appunto « potenza creativa del linguaggio poetico » cioè far scaturire da una libera creazione alogica della lingua (da non confondersi con l'automatismo endofasico) una poesia nuova capace di eccitare l'immaginazione e la fantasia nel poeta e nel lettore.
Qual è secondo te l'idea di cultura nel campo dell'arte e, in modo specìfico, nell'area della poesia?Per cultura s'intende ogni forma critica, di revisionismo, di anticonformismo sia verso i grandi che verso i minori; evitare di essere epigoni; sperimentare, ma che l'esperimento si affermi con autorità e non come semplice stravaganza. Creazione più che del nuovo fine a se stesso dell'originale e con impronta personale. Esempio: Pound, Benn ed altri.
Quale ideologia pensi che ti abbia influenzato maggiormente?Più che le ideologie, che sono atteggiamenti pratici e, il più delle volte, calcolate, m'interessano le idee. Queste sono provocataci di riflessione e di meditazione su quel reale che ci sorprende sempre e che non può essere mai previsto da una qualsiasi ideologia. So bene però che se c'è una retorica dell'antiretorica, c'è anche l'ideologia dell'antidcologia. Ma qui si tratta di giochi di parole e non di autentiche scelte mentali.
Che pensi dei partiti politici?Io personalmente sarei per la soppressione di essi proprio per rendere possibile l'autentica democrazia. Ogni partito politico finisce con l'essere un coacervo di interessi privati e aspira, anche se apparentemente non sembra, a diventare totalitario. La democrazia, più che sulle ideologie e sui partiti (pluralismo fittizio e fasullo), si fonda sulla volontà generale, dalla quale scaturiscono le libere associazioni, i movimenti di idee, le riviste autonome, i giornali liberi, radio, televisione non controllate né dallo Stato né dai partiti, che in realtà sono tante agenzie di collocamento. Per un uomo del secolo XX è semplicemente vergognoso e ridicolo e anticivile possedere una qualsiasi tessera. Semplicemente chi rinunzia alla libertà si rifugia, per calcolo, in quella che sì chiama linea o disciplina di partito. In Italia, poi, essere iscritto a un partito significa evirarsi culturalmente e aspettare con ipocrisia segrete e redditizie protezioni dall'alto. Siamo un popolo di impotenti, di falsari, di pusillanimi, di calcolatori, di ipocriti e conformisti in tutto: non prendiamo sul serio che il danaro, il potere, il culo e la vagina.
Il primo ostacolo può essere senz'altro attribuito al fatto che non sono in possesso di nessuna tessera politica e sono inviso a non pochi consulenti culturali delle Case Editrici più importanti. Cito un'altra ragione. Anni fa il poeta Vincenzo Cardarelli mi presentò con un fare entusiastico e rispettoso all'Editore Alberto Mondadori. Erano gli anni del mio sodalizio col poeta di Tarquinia. Si conversò del più e del meno e quando Cardarelli si accorse che Alberto Mondadori aveva preso sul serio sia il mio caso che la mia poesia, nell'accomiatarsi, se ne uscì con questa frase, degna di un'autentica carogna, che turbò sia me che Mondadori: « Per quel che riguarda Piazzolla... poi si vedrà ». Altra carognata la ricevetti da Ungaretti (magna pars della Casa Editrice « La meridiana ») allorché fu pubblicato sulla Fiera Letteraria, in occasione della morte di Andre Gide, un mio articolo che riportava alcuni giudizi dello scrittore francese su alcuni scrittori e poeti italiani, ivi compreso Ungaretti, un bel giorno mi vidi arrivare il dattiloscritto di un mio volume di liriche dal titolo « Nel mio sangue, un nome », che doveva essere edito dalla « Meridiana », senza un rigo di accompagnamento. La Casa Editrice Vallecchi, adducendo le solite ragioni, non pubblicò un mio volume di poemetti presentato da Carlo Bo; né il poeta Vittorio Sereni portò a termine una certa intesa che si era stabilita con l'editore Mondadori. Dopo lo sciagurato episodio del « vate » di Tarquinia, col quale ero legato da una decennale amicizia e dal quale mi aspettavo la stima che meritavo, soprattutto perché da me, culturalmente. Cardarelli imparò molto, in special modo nel campo filosofico storico e anche letterario. Cardarelli, del resto era noto a tutti, pur essendo dotato di viva intelligenza e gusto come autodidatta aveva letto pochissimi libri e conosceva pochi autori e in superficie: Socrate, Pascal, Leopardi, di alcuni brani dello Zibaldone, Rimbaud, Baudelaire, Nietzsche, Peguy, Ibsen e qualche altro autore. Infatti egli osava affermare solennemente: « colti si nasce! » e si accontentò per tutta la vita di questo detto.
Come giudichi la poesia « Satura » di Montale ?Si tratta di una poesia che è un misto di prosa, di riflessione e di boria filosofica. Dunque, poesia senile, cincischiata e dove manca un'autentica struttura poetica. In Italia quando si ha un nome, tutto ciò che si scrive deve avere assolutamente un valore. Ebbene, in « Satura » Montale decade, come se avesse perduto la sua identità.
La tua idea sulla lirica moderna?Per poesia moderna io intendo quella lirica che dialetticamente e filologicamente parte dai greci, passa per Virgilio, Dante, Petrarca, Gongora, Leopardi, Baudelaire, Rimbaud, Mallarmè, Valéry, Hoelderling, i poeti spagnoli e la poesia anglosassone. Un poeta contemporaneo è originale nella misura in cui ha bruciato questi sedimenti che costituiscono la sostanza autentica della lirica europea. Il salto qualitativo dalla tradizione all'avanguardia sta nel rendere vivo questo filone sotterraneo. Vedi Pound e ì poeti provenzali e Cavalcante; Eliot e Dante, Mallarmè e Gongora, Baudelaire, Leopardi e Petrarca.
Consideri producente l'azione delle cosche letterarieAssolutamente negative. Soltanto le mezze tacche solidarizzano e si fanno largo con beghe e con intrighi. Le cosche servono a ottenere premi, consulenze editoriali, cattedre universitarie, direzioni di riviste e giornali, commissioni di premi e prestigio sotto ogni aspetto. Si tratta, come diceva Leopardi: di baronfottutti che si coallzzano contro l'isolato, il quale, da solo, vale tutti i componenti non importa quale cosca.