La bocca si apriva e chiudeva ritmicamente, mentre la lingua, untuosa e rossastra, assaporava, trattenendo tra i denti larghi e spessi, il piccolo delizioso quadratino di scura cioccolata fondente.
Gli occhi, simili a dei fari nella notte, lampeggiavano lascivi di piacere.
Tutti i sensi, all'unisono, ne erano inebriati.
Sara guardò verso il soffitto.
Delle grosse macchie scure formavano stravaganti disegni geometrici, coprendo quasi del tutto l'originario biancore.
Poi volse gli occhi verso le pareti, che da un giallo paglierino iniziale erano diventate rossicce e striate qua e là.
Bisognava restaurare la stanza, anzi la casa.
Ridipingere le pareti, i soffitti, riparare lo sciacquone del bagno, le tapparelle alle finestre, i vetri della cucina, che si erano frantumati e da cui entrava il vento, la pioggia, la polvere.
Bisognava fare tutto questo.
Sara se lo ripeteva ogni giorno.
Oggi si sarebbe decisa. Anzi si era decisa
Più tardi avrebbe chiamato qualcuno. Forse Elsa. No, meglio Giorgio o Piero.
Bastava fare solo un gesto, allungare la mano, tirare il filo del telefono, sollevare la cornetta, comporre il numero, aprire la bocca per parlare
Bastava così poco.
L'avrebbe senz'altro fatto, più tardi.
Fra un'ora o due, o tre. Fra quattro minuti, forse.
Bastava così poco.
Ma era bello stare immobile, senza pensare.
Solo la bocca doveva agire, come quando neonata si attaccava alle grosse tette di sua madre Elvira, anche lei sonnolenta e buesca, ingurgitando famelica il bianco, grasso nettare, che sgorgava copioso dalla mammelle gonfie.
Elvira, disabile mentalmente, era rimasta incinta a quattordici anni, non sapendo né da chi, né come.
Non aveva potuto abortire perché era giunta molto avanti nella gravidanza, prima di capire cosa le fosse successo
I suoi genitori, per paura di uno scandalo, l'avevano mandata in un piccolo paese della Lucania, presso una lontana zia, dove aveva dato alla luce Sara.
Elvira l'aveva nutrita per otto, nove mesi. Poi era sparita, inghiottita dal nulla.
Sara era stata, quindi, allevata ed adottata da questa parente, che riteneva fosse sua madre.
All'età di quindici anni, però, rovistando in alcuni cassetti, era venuta in possesso di una foto, che la ritraeva neonata, nelle braccia di una goffa bambina.
Sara aveva intuito immediatamente di essere in presenza della sua vera madre fisiologica.
Infatti lei e la fanciulla della foto erano due gocce d'acqua.
Tutte e due alte, grosse, con le facce tonde e il ventre esteso. I capelli lisci e corti, pettinati all'indietro. Sembravano delle gemelle zigote.
Mentre non vi era alcuna rassomiglianza tra lei ed Antonietta, sua presunta madre, o Pietro, suo presunto padre. Ambedue mingherlini e segaligni e di bassa statura.
Non aveva parlato con nessuno di questa scoperta. Non aveva voluto sapere altro.
Ma all'età di diciotto anni, la sua ossuta zia-madre, le aveva rivelato la verità.
Aveva così appreso della scomparsa precoce di Elvira e, quindi, della sua impossibilità a conoscerla.
Per di più i nonni non ne volevano sapere di lei, anche se provvedevano al suo mantenimento.
Sara non aveva risposto nulla.
Aveva solo socchiuso gli occhi neri e gonfi, non mostrando alcun interesse palese.
Poi non se n'era più parlato.
Con il passare del tempo, Sara si era sempre più ingigantita ed ingrossata.
A venti anni pesava cento dieci chili, su un metro ed ottanta di altezza.
Una ingordigia irrefrenabile si era impadronita di lei.
Ingurgitava una quantità spropositata di cibo, a tutte le ore del giorno.
La notte, poi, in preda ad un'ansia famelica, si alzava diverse volte. E, al buio, a tentoni, senza far rumore, si avviava in cucina, rovistando nel frigorifero in cerca di qualsiasi cosa da mettere sotto i denti.
Solo così riusciva a calmarsi.
Dopo il diploma di Ragioniera, preso con il minimo dei voti, non aveva voluto più studiare, né desiderava lavorare.
Passava quasi tutto il tempo in casa, chiusa nella sua stanza, immobile e muta, distesa sul letto. Solo la musica della radio o del giradischi a farle compagnia.
A venticinque anni si alzava soltanto per mangiare.
Inutile ogni sollecitazione da parte di Pietro e Antonietta.
Sara ormai era diventata informe, una enorme palla di grasso.
Più ingrassava, più si sentiva bene. Serena, leggera.
Si ingrossava all'esterno e si alleggeriva all'interno.
La morte dei suoi "genitori", causata da un pauroso incidente stradale, l'aveva lasciata indifferente, come, del resto, tutto ciò che la circondava.
Da tre mesi ormai viveva sola e si sentiva per la prima volta felice. Poteva ingurgitare tutto ciò che voleva.
Assaporare, ingoiare, digerire, defecare, erano i soli piaceri della sua vita.
Non desiderava altro.
Non voleva altro.
Erano passate già quattro ore e lei non aveva mosso la mano, sollevato il telefono, parlato con alcuno.
Aveva solo seguitato ad inserire, a piccoli intervalli, nei denti grossi e spessi, dei piccoli quadratini di cioccolata. Sempre con gli occhi rivolti al soffitto, che, ora, al buio, riusciva a malapena ad intravedere.
Così per un tempo indefinito.
Sara non aveva più alcuna cognizione del tempo.
Aveva cominciato ad orinare e defecare sul letto.
Se n'era accorta dall'odore nauseabondo che avvertiva.
Ma rimaneva indifferente come una neonata, in attesa di essere pulita e cambiata.
Il soffitto era divenuto all'improvviso chiaro, splendente, illuminato a giorno.
Vide, allora, delle grosse tette. Bianche. Enormi. Gonfie di latte, che, da sotto il lampadario, si alzavano ed abbassavano sino a sfiorarle la testa, per poi risalire immediatamente, senza che ella potesse toccarle.
Sara per la prima volta provò un forte desiderio per qualcosa.
Voleva a tutti i costi impadronirsi di quelle mammelle turgide.
Non desiderava altro che succhiare quel nettare.
Inebriarsi.
Perdersi in quel biancore lattiginoso.
Si mosse più volte, ma inutilmente. Protese le mani. Socchiuse la bocca, una, due, tre volte. Invano.
Poi, il miracolo.
Si era sollevata in alto, come una libellula, lieve, senza peso.
Ora era all'altezza delle mammelle. Le poteva sfiorare, toccare.
Poteva immergersi. Affondare in quel biancore.
Un sapore dolce e pastoso l'avvolse tutta, penetrandola.
Era in una dimensione gassosa, trasparente.
Era nel regno dell'armonia.
Aprì per un attimo gli occhi, che teneva chiusi dal piacere.
In basso riusciva ad intravedere, a mala pena, un corpo enorme, disfatto, immobile.
Una mostruosa palla di lardo.
Solo per un attimo, perché ormai era fuori dalla stanza, oltre il soffitto.
Avvolta in un imbuto luminoso che la spingeva oltre. Oltre.
Gemma Forti