Quale destino può avere oggi un poemetto in prosa, un
racconto in versi che si svolge al principio del secolo nella prima
parte, e alla fine dello stesso nella parte conclusiva?
E la storia di una ragazza, Angelica, che s'innamora di un giovane
mentre la famiglia vuole che sposi qualcun altro, un buon partito con
un bel nome. Quante di queste storie un po' lacrimevoli sono passate
sotto i nostri occhi?
Queste premesse sono onestamente necessarie prima di gettarci nel ritmo
incalzante di questo valzer prosaico che diventa improvvisamente un
flusso di tinte morbide, di sentimenti che spingono la mano
dell'autrice a giochi di parole e versi musicali che sono quelli che
conducono l'avventura de Gli occhi della genziana, opera emozionante
quando è densa, intrigante quando accostamenti di termini e
strofe sono intricati, sempre dotata di virtuosismo d'equilibrio.
Nella vicenda appaiono poeti e personaggi della storia del Novecento a
condurre i pensieri della protagonista e questo è il punto
di forza dell'eroina innamorata per scandagliare e sorreggere il
suo cuore. Al tempo stesso costituisce la trama linguistica nascosta di
questa storia in versi.
Il ritmo dei versi permette di attraversare il libro con attenzione
anche fiabesca nell'atmosfera di semplice classicità
amorosa che offre. E il passo doppio che fa penetrare nei meandri
linguistici i compagni di viaggio di Angelica, e della sua autrice. Il
finale è a sorpresa, la vicenda si fa realtà
storica, quasi un secolo dopo il suo esordio. Un documento
ritrovato, che si mette in moto al ritmo di una locomotiva inizio
secolo con un pluf pluf onomatopeico, porta prima nel Futurismo e poi
nel futuro. Cioè nell'oggi che viviamo, con i suoi provocanti
squilibri. Le parole impazziscono, le lettere tornano alla loro
neuronica origine formando figure sospese geometricamente leggiadre.
Lampi, esseri, fiori, catarsi, chissà. Poi la storia mangia
se stessa e ci rivela i minuetti d'oggi, sale la cronaca, scende la
ricerca, corre la vicenda tra le nazioni odierne più
chiacchierate e le cronache di color peggiore. Al termine voli e
rapidi gorgheggi d'uccelli portano via il libro.
E questa forse è la risposta alla domanda iniziale.
Probabilmente il destino d'un poemetto in prosa è quello di
sollevarci usando le ali della lingua, al di sopra di ogni moda,
sentimento e ricerca, in cerca d'un momento d'assoluto. Dopo essersi
bagnato nelle lacrime di una donna innamorata, questo è il
volo del mondo umano, dal Papa a Castro applauditi insieme nel quarto
tempo del libro, al colore rosso che tinge e svuota il quinto tempo,
all'epilogo dove il minuetto riprende tragico e urlante di speranze,
egoista e pettegolo, finché "la guerra vestita da fanciulla con
Testa di drago" (passaggio bellissimo) infuria coi suoi ritmi che
diventano cardiaci, orribilmente naturali tra il rosseggiare del secolo
che predilige all'aurora, al meriggio e al calar della notte questo
colore di fuoco e sangue.
La composizione di questa stona è giungere attraverso la poesia
di Gemma Forti a cui possiamo - nel nome e nel suo preferito gioco
letterario - riconoscere la "gemma" di quel che ci ha raccontato e le
"forti" e inusuali emozioni letterarie che porta. Gemma percorre una
strada che altri in altri tempi hanno battuto da esploratori
calligrammatici e icastici, ma lei lo fa con totale libertà
d'uso cantandoci una storia d'amore non solo negli atti ma anche
nell'estetica della narrazione.
Unisce elementi del nostro vivere ma che abbiamo sempre tenuto
distinti. E che Gemma raccoglie ed offre in una ballata attuale,
autenticamente linguistica, dal grido del cuculo agli sbarchi degli
Stanislao Nievo