Un libro è, con le debite differenze, lo stesso che una persona o un paesaggio.
La Spagna e la Scozia, la Russia e il Polo e la Svizzera non sono forse persone? Come queste hanno volto e lineamenti, alcuni più marcati, altri meno, alcuni più rugosi, più allegri o più tristi ed altri meno, alcuni sempre a piangere, altri inaccessibili nelle loro elevate e gelide fortezze, altri nel pieno lussureggiare delle forze, altri invece incapaci
— ormai riarsi e inceneriti — di dare più nulla se non il senso dell'eterno.
E quando un paese, un luogo, è in particolare sintonia col nostro spirito — si va in quel posto come si va in un porto: un luogo al riparo, dove l'anima stanca e bisognosa di riposo può distendersi in pace, esistere e scomparire, dove, colma di serenità, può finalmente addormentarsi. L'amore è per l'anima quel che il sonno è per il corpo: allo stesso modo indispensabile.
Là si va per ritemprare lo spirito, perché beva ad una delle infinite sorgenti del divino e sia più forte, dopo, nel suo compito. Chi non ama, invece, come chi non dorme mai, sempre stanco, sempre mal di testa.
Così si va in un libro amato.
Come le persone e i paesaggi, i libri hanno la loro "anima": quella che la loro fisionomia rivela e nasconde al tempo stesso, perché ogni fisicità non è che la forma che le qualità-funzioni spirituali assumono, nella quale, a volte ingannevoli a volte veritiere, esse si plasmano e dispongono.
Non basta una testa, non bastano delle gambe, non basta un corpo per essere vivi: occorre un lumicino puntiforme eternamente acceso, che abbia una finestra per comunicare — aperta o chiusa non è importante. Se la vita è determinata dall'esistenza di questo lumicino
— il suo grado lo è dalla vastità dell'incendio che dal quel lume-scintilla può avere luogo.
Sempre la vita è bruciare: un verbo intransitivo. Come la sapienza, non si può travasare, non può dare nulla di sé, se non l'impulso a bruciare, a sapere: se non la scintilla. E tutte le creature in qualche modo viventi sono destinate, che lo vogliano o no, a comunicare la loro vita, ad accendere altre vite — della loro specie.
Allora, come presentare un libro? Proprio come si presenta un luogo o una persona: eccola. Accostatevi a lei, guardatela negli occhi, e poi osservate l'espressione del viso e delle mani — il resto no, perché tutto il resto è inchiodato: la costruzione come lo scheletro. Poi ascoltate se in voi qualcosa s'accende e arde. Se questo accade, la creatura è viva, e potete prenderla con voi nella vostra famiglia. Altrimenti — o ella non appartiene alla vostra specie o non appartiene affatto al regno, così infinitamente variegato, della vita: cartolina, e non paesaggio vero; burattino e non bambino. (Ma anche nelle pietre la vita batte: le stelle pulsano! Essa non batte soltanto dove l'uomo l'uccide — non riconoscendovela. Poiché è solo l'uomo che dà o toglie la vita. Sono gli occhi che ci guardano. Tutto quel che vive è come una fontana: basta aprire, stappare, e il vino o l'acqua o il fuoco scorre. Scende o sale, o si espande orizzontale).
Eccolo, allora, questo aspirante alla vita. Da solo, come è giusto che le persone vadano sole, senza sostegno alcuno, per loro sola forza. Come una rondine che abbandoni il nido: senza sostegno perché non precipiti al venir meno di quello, per sua sola forza perché impari ad accrescerla per conservarla uguale, sopperendo alle inevitabili perdite.
Il nome di questo libro di Amanda Knering, come quello di un paese o di una persona, può dire ben poco. Leggendolo, vi si trova una fiaba, la storia di un mondo remoto, di un pianeta dove regna un impossibile "nessun ordine, nessuna legge", dove personaggi-monconi terrestri arrivano uno dopo l'altro, non si sa come, tutti rifiutando il loro ruolo terreno: il servizio. E così un indice se ne va a spasso per conto suo, insieme con poche lettere sperdute dell'alfabeto, un petalo, alcuni numeri anch 'essi errabondi e disertori, e altre creature luciferine di questo tipo, in un universo del tutto caotico e inutile — per protesta e rifiuto del nefando ordine terreno imperniato sul Potere, ossia su una autorità degenere, che — come quelli — rifiuta il servizio ad altri che a se stessa, e che ha condotto per questo alla distruzione la Terra.
Sacrosanta protesta. Ma queste creature, figlie di quel Potere, hanno come lui perduto il senso delle scale angeliche, e non sanno più che il servizio è sacro, se penino il divino s'inchina a servire l'umano. Non sanno più che, se abbassare è sacrilego — sacro è abbassarsi. Abbassarsi: cioè non spezzare la catena che collega tutte le creature.
Loro, che pretendono l'uguaglianza senza averla conquistata, non sanno più che non siamo tutti uguali, proprio perché la disuguaglianza è la premessa indispensabile all'Elevazione. Tutto ciò che vive, anche la Bellezza e l'Arte, non ha altro fine: riscattare, innalzare. Solo ciò che è in basso può essere innalzato.
Non riconoscere di essere in basso significa alienarsi per sempre ogni possibilità di elevazione. Tutto quel che vive non è affatto uguale (che musica sarebbe l'universo se in esso risuonasse sempre la stessa nota?), ma tutto quel che vive ha, di uguale, il diritto-dovere all'Elevazione. Per questo quel che è elevato scende. Una ruota. Movimento circolare e rettilineo insieme.
Libero non è ciò che non è legato, ma ciò che — collegato — può crescere e salire. Non è il legame, il male: è l'uso che di questo legame si fa da chi sta più in alto, o possiede più forza o potere. Perché ciò che non è legato non può crescere in alcun modo: sì rinsecca e perisce. Nella natura, in tutto l'universo non c'è una sola cosa scollegata. E allo stato di natura, in tutto l'universo, non c'è una sola cosa schiava. La schiavitù è una ferale invenzione umana (perché abbassa, e spezza la catena), come molti altri oggetti costruiti dall'uomo per la morte.
Così questa fiaba afferma in negativo, per vuoto, proprio il contrario di quel che dice. E infatti, in un pianeta dove tutti gli abitanti si dicono portati dall'Amore, dove i possessivi non esistono più, non ci aspetteremmo, come ritornello dell'unico personaggio femminile con sembianze umane, "io sono mia", anche se esso giustamente nega l'"io sono tua" di una fase antecedente e inferiore. Qui noi ci aspettiamo una terza formulazione: io sono te, per il quale l'"io sono mia" è solo una pista di lancio.
Ma questa frase-spia non è che un detrito terrestre, come tutto il resto. Gli abitanti di questo pianeta sono un fiume dì sabbia che un vento astrale ha trasportato lassù, poco prima o poco dopo la distruzione della Terra. A dimostrare che non basta (anzi: che non serve) andarsene lontano — su altri pianeti o nel regno delle fiabe — per cambiare. Ma qui ed ora bisogna attuare il regno dell'Amore: ascoltando la voce più profonda del proprio essere, che parla il linguaggio divino della Vita, il cui desiderio eterno è di salire in perfezione — attraverso tutte le creature.
Dario Bellezza