Io, stregone è un canzoniere poetico nato sull'impulso bruciante di un amore da poco vissuto. Anche un precedente libro in versi di Patricia Wolf
www.emotions.net aveva come tema l'amore. Ma si trattava di quella particolare forma di amore post-moderno e cyber-mediatico che nasce lungo le vie digitali di Internet ed il linguaggio si adeguava, mutuando gergalità, anglicismi, brachilogie comunicative dalla realtà della rete, dando luogo a un feno-testo poetante di schietta marca neofuturista.
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Questo nuovo libro affonda le radici in un amore attraversato assai più tradizionalmente e, quindi, anche il linguaggio si normalizza. Pure se restano certe accelerazioni paratattiche, certe consuete ellissi della Wolf, la lingua deve qui accompagnare un andamento meno esplosive e più riflessivo, farsi intenso controcanto delle macerazioni, dei gorghi infernali tipici della relazione amorosa.Fin dai primi versi («Chiamerai / fra un minuto o fra un secolo / quando il tempo mi avrà scavato dentro / già fin troppo dolore / così forte da schiantarmi...») si comprende che per la Wolf il bisogno d'amore vive nel tempo dell'attesa. |
Che è un tempo di tortura psicologica, di tensione spa-smodica, di bramosia e di furore. E il gioco dell'io scrivente e innamorato sembra voler duplicare nella trama delle parole tutta la folla e la follia dei mille pensieri e congetture e sospetti e incubi e sofferenze innescati dalla latitanza dell'amante. Chi ama è solo e alle prese con i suoi fantasmi, chi è amato passa lieve e noncurante e ogni suo passaggio determina «una scossa-elettroshock». Sottrarsi, dilazionare, rinviare, rimandare sono allora altrettali mosse fatali nel campo di tattica & strategia della relazione d'amore, determinano una dialettica sbilenca, una crudelissima suspense che costituisce poi, infine, «il senso assurdo di un'attesa».
Ecco en attendant l'amour è un po' come en attendant Godot: c'è un'implicazione di assurdo legata a quell'aspettarsi un evento supremo, assoluto, risolutivo. Ad ogni nuovo amore, si riproduce l'attesa di un amore-catarsi, un amore-palingenesi, un amore-salvezza. Le esperienze passate dovrebbero aver insegnato quanto ciò sia illusorio e, talora, rovinoso. Eppure ogni volta il meccanismo si riattiva implacabile e non può non essere così, perché ogni amore è per definizione, ontologicamente un amore-miraggio. La voglia di amore, cioè di credere all'amore sfonda l'assurdità e si rende reale e compiuta di per sé. Ed è questa realtà "di fede", indistruttibile, incontestabile da qualunque osservatore, che genera il libro d'amore, come messinscena verbale di una passione. Perché il soggetto amante è anche un soggetto recitante, ha indossato la maschera del desiderio e la proietta sulla scena della paro-la, dove può modulare tutte le intonazioni, tutte le sfumature, tutte le nervature, l'alfa e l'omega, sistole e diastole del sentimento panico dell'eros. Di più, la scrittura sublima il corpo, fa del cuore la più abusata e immancabile delle metafore, ed esperisce il dominio della mente, la sovranità del mentale, come livello di astrazione, di replicazione virtuale del sentire e patire erotico.
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Nel testo della Wolf l'intelletto d'amore pulsa alla ricerca di una parola «prima» cioè originaria da cui far scaturire tutte le altre, una parola che sia «una specie di Sos», che sia capace di coniare «un alfabeto nuovo», che sappia suscitare «un linguaggio magico». Già in un saggio capitale come Frammenti di un discorso amoroso Roland Barthes aveva osservato che tale «dis-cursus» ossia tale correre qua e là della mente innamorata, ripercorrendo sempre i medesimi passi e non cessando di intrigare contro di sé, era una prova «d'estrema solitudine». |
Ciò che si genera è un discorso solitario, pres-socché avulso, sostanzialmente autoreferenziale, un monologare monomaniacale e, dunque, al limite della psicopatologia delirante dove l'unica cosa che alla resa dei conti vale è precisamente l'essere «il luogo di un'affermazione». Il luogo di un soggetto che intende affermare, ribadire sino allo sfinimento "Io amo. Perché? Perché sì". Chiosava al riguardo Barthes: «Parlare amorosamente, significa dissipare senza limite, senza soluzione di continuità; vuole dire praticare un rapporto senza orgasmo». Ovvero senza un climax di soddisfazione. Il discorso amoroso è un eterno rinviare il momento dell'incontro d'amore, ed è perciò che è un "discorso impossibile", ossia radicato nell'impossibilità di afferrare, di trovare l'Altro, l'oggetto d'amore. Però, come scrive lucidamente Patricia Wolf «In fondo è un sogno... / In fondo è fiction... / In fondo è idea... / In fondo è la mia vita... / In fondo va bene così...».
Sì, certo, va bene così nella misura in cui la vox amorosa comunque non si attacita, comunque si moltiplica, comunque si fa eco di un ragionare sragionando, di un trionfare soccombendo, di un rispecchiarsi offuscando la propria anima. E l'ego amoroso nel titolo si autonomina Io, stregone. Un io sciamano, demiurgico, esoterico manipolatore che ha però, forse, stregato, incantato unicamente se stesso, che sbatte la testa e le frasi nella gabbia di un idillio che ha fabbricato da sé. Magia bianca per un soggetto amante che ha felicemente pitonizzato se stesso, ma anche magia nera per un io al dunque consapevole «di questo sciocco / romantico / gioco al massacro con una sola vittima predestinata».
Perché poi, sciamano o no, è qui il crudo senso ultimo e "sado-maso" dell'intreccio d'amore, che c'è sempre una vittima (beninteso più che consenziente) e c'è un carnefice. Un "Tu" carnefice che scatena i giri poetabon-di di Patricia: «Mi stai trainando / in cima alle tue astrazioni inebriate... / Tu che dici di non avere un Dio / e ne insegui ogni attimo uno diverso... / Mi stai strappando / via dal mio mondo... / fino a toccare mentalmente / il centro della tua follia...»; «Raccontamela prendendo a calci la mia anima... / Raccontamela sfidandomi / ad un moscacieca sfrenato... / Raccontamela senza accorgetene / come inciampando in un minuto d'incoscienza...»; «Rabbia di volerti / malgrado / nonostante / per quanto / pure se / la mente
sa / la ragione esclude / il cervello calcola / il pensiero-padrone da ordini / ed il corpo cambia direzione...»; «Ho appena smesso di maledire / la tua estenuante smania di portarmi alla pazzia... / Ho appena smesso di chiamarti boja / per assassinare i miei sogni neonati...»; «Chi sei / Adesso sono io a chiedermelo...».
Già, il vero enigma è poi, in definitiva, il Tu a cui si rivolge il poeta innamorato, perché è un Tu - gay o etero, poco importa - di autocostruzione, l'identità dell'interlocutore sulla pagina si nebulizza secondo un noumeno, si sgancia dall'essenza reale e si fa per più di un verso inconoscibile. Torna allora in mente la massima poetessa italiana dell'invasamento amoroso, Alda Merini: «Capita anche a me... / di aver fatto l'amore / con quelli / che non ho mai conosciuto»; e ancora «quando l'amore è delirio / e tu non giungi a cercarmi / cerco e voracemente credo / che tu sia stato solo una stella / e il mio porto sia lontano / non una ma mille volte».
La parola innamorata assomiglia, quindi, al regesto di un naufragio, e monta in una incandescenza che ha anche chiaramente una componente
onanistica, ma la sua grana migliore sta nel carattere di anticipo, nel suo dirsi, tradirsi, contraddirsi e disdirsi prolettico che la Wolf inquadra sagacemente: «L'attimo prima d'incontrare / sulla mia strada / l'idea di te e venirne folgorata / L'attimo prima / sempre l'attimo prima / è l'attimo perfetto». Come non pensare a Goethe? «Sei bello, attimo. Fermati!». Ecco la parola innamorata è in sostanza il tentativo eroico di fermare questo "attimo prima", ovvero di fissare l'amore al suo stato nascente, aurorale, seminale. Catturare come in un fatato fermo-immagine "l'attimo prima" è cercare di compenetrare la sua "perfezione", di rendere effabile il suo mistero, quel grumo oscuro che feconda il vivere e lo translumina, lo trascende in condizione di grazia, lo fa risplendere nella luce d'oro di una energia di "menzogna e sortilegio", una energia extraordinaria, biochimica, iperanfetaminica.
Il dopo, "l'attimo dopo" appartiene già all'ordinario, cade nel regno della ripetizione e della debilitazione, l'amore si consuma e ci consuma e si può uscire di scena, come glossa Patricia, persine nell'indifferenza o nella disattenzione dell'altro. La parabola si è compiuta, lo spettacolo («Roba da avanspettacolo») ha calato il sipario, e forse riprende l'attesa per ricominciare, per ri-rinascere. Penso a Ungaretti: «Nascendo / tornato da epoche troppo / vissute // Godere un solo / minuto di vita / iniziale // Cerco un paese / innocente». Un paese innocente popolato di malati d'amore. Ovviamente incurabili. Come Patricia Wolf.
Marco Palladini
Elaborazione
grafica delle immagini di Gabriella "Martyn" Peri |