Se si crede di passare indenni nei baratri della modernità,
senza essere soggiogati e traditi dalle mille metafore del benessere
materiale, La superficie del vento contesta inequivocabilmente il
contrario. Opera multiforme e sfuggente, testimonia la caduta di
qualsivo-glia empito morale nell'ipocrisia dei numeri e del denaro,
riapre, ma senza compiacersene, la ferita collettiva della perdita
dell'unità con la Natura e il Divino.
Affidandosi al parlare iniziatico della poesia (Heidegger), Luca De
Biasio esordisce in letteratura con un metatesto che collega la propria
nominazione delle cose a successive rifrazioni simboliche: la ripresa
cinematografica del Biade Runner diRidley Scoti ("Nevica/Al largo di
Orione/Navi in fiamme"); la scrittura sventagliante del rock romantico
decadente inglese sul modello di Gentle Giani, Yes, King Crimson ("I
wish to become a virtual dream/A synthetic voice"); le esperienze del
pop nostrano, da Roberto Vecchioni a Marina Rei, citati in epigrafe; la
tradizione letteraria italiana (Anosto, Tasso); le coplas mistiche di
San Juan de la Cruz; i Koan della disciplina Zen (emozioni veicolate da
paradossi); l'aprìco haiku giapponese; le accensioni
neo-orfiche, da un calco della poetessa Saffo ("Cosa può esserci
di più bello sulla terra nera") alla circolazione continua,
persuasiva della parola sacralizzata ("Dove splende il sole/Guardo il
cielo della sera/Cercando il centro della vita").
La superficie del vento è interamente immersa nella palude del
non senso, tra creature divise e macchine arroganti, fra dogmi
esulcerati dalla mancanza di fede e la barbarie ritornante, ormai alle
porte. Inevitabile la visionarietà, per proiettare l'umano,
attraverso le alterazioni dell'ineffabile e del trascendentale, verso
un nuovo ideale, una risorta metafisica della luce.
Luca De Biasio solleva numinose presenze, misteriose teofanie per una
sua più segreta esigenza: la rifondazione della
soggettività nella dispersa e annichilila aggettività del
presente. Scava a fondo nella crisi, venendo a coincidere ogni
possibile riscatto con la parola-evento, autonoma e assoluta, con la
quale tutto può essere messo in relazione a tutto (la musica, la
scrittura, le filosofie orientali, i carteggi imperiali, /'ordo
artificialis della webcam).
Equidistante dagli estremi della poesia crollata nella prosa e della
poesia meramente consolatoria, La superficie del vento tenta
l'esperimento della lirica senza elegia, variando lo schema derivante
dal corpus tibullianum, intorno al quale si è costituita larga
parte della lirica europea. Riscoprendo le artes lectoriae e
versificatoriae medievali, De Biasio non mantiene più il sublime
nel vecchio senso del sapere dell'anima, ma lo ricerca nell'epica, in
una sorta di ultimo canto a contrariis ("Piove sulla Capitale/Piove in
questo strano giugno/E nel tramonto umido e grigio/Mi guardo
indietro.//Ho percorso secoli e millenni/Ma non sono diventato niente",
da Viaggio nella capitale dell'Impero).
I tre temi su cui l'opera si dipana sono Eros (l'amore fisico e
intellettuale), Ananke (la necessità, il destino), Neìkos
(l'odio come distruttore e rigeneratore).
Eros viene rappresentato nella forma arcaica di fulcro auratico,
emozionale; si vedano le Rime della Parte Terza, dove risaltano
l'a-lonatura siciliano-stilnovistica ("Or di silenzio il giorno
s'è vestito"), la serrata contemplazione della bellezza di
stampo gotico-preromantico ("Come vampiro succhiare dei pochi/Miei
giorni dalle tue labbra i fuochi"), gli echi foscoliani ("Non
più sentirò"), le reminiscenze pascoliane ("Vien la
sera").
Il motivo creaturale della discesa dentro la terra (Atlantis) nella
Parte Prima, si reitera nella Parte Seconda con il poemetto drammatico
Orfeo e il suo tentativo di distruggere l'orrore che vive dentro ogni
individuo, di portare a chiarezza le cose, abolendo la loro frattura
dal linguaggio.
Le fonti di Orfeo si possono rintracciare nella Mitologia Tessalica di
Paula Philippson, nei Prolegomeni allo studio scientifico della
mitologia di Karoly Kerény, e soprattutto nel!' Inconsolabile,
che fa parte dei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese, opere
fondate sullo sfesso topos di Orfeo che rivela perché non ha
salvato Euridice, dopo la discesa nell'Ade: "Non si ama chi è
morto" (Pavese), "Come potrai essere nuovamente felice/Tu che hai visto
il dissolvimento della morte?" (De Biasio).
Qui la ricerca del destino muta in sublimazione e maledizione, come se
l'esistenza intera fosse toccata dalla malattia, non solo la dimensione
carnale, quanto la connotazione spirituale che si adombra di
scetticismo e di finalità irrisolta.
La Parte Quarta, Viaggio nella capitale dell'Impero, nel suo andamento
diaristico-epistolare si configura come la più impegnativa, la
più disillusa del libro: "Un tempo ho cercato la vita/Ed ho
scoperto che la vita e la morte/Sono nomi di un'identica burla...//Ho
viaggiato fino ai più lontani confini dell'ìmpero/Per
sentire la saggezza degli antichi/i proverbi dei vecchi/Ma che
mise-ria!/Che meschinità mascherata da saggezza!"
L'immaginazione cavalieresca si confonde con la science fiction: dame e
asteroidi vaganti "negli spazi senza fine.../Senza meta. ..senza vita"
designano un curioso spazio-tempo in espansione, per bisogno di uscire
dal grigiore del quotidiano e assegnare alla vita un valore diverso
dalla solita misurazione in status-denaro.
Luca De Biasio affronta direttamente la realtà, non lascia
l'iniziativa all'autocommiserazione, vivifica il succedersi degli
eventi naturali (la costante presenza del vento) e storici
(l'indifferenza tra Bene e Male che si è prodotta nell'opulenta
società occidentale), traduce in immagini significative solo
ciò che dolora e fa sanguinare ("Nel mio mondo ideale il male
vince sempre").
Riscoperta la concezione medievale del contemptus mundi, del cupio
dissolvi, l'Autore veste senza indugiare i panni dello Shiva terreno:
"E forse riuscirò/Tra qualche vita/A compiere la mia vendetta/.
../Contro il genere umano".
La distruzione del mondo, a cui avevamo già assistito nelle
pagine leopardiane del Cantico del gallo silvestre, o nella pagina
conclusiva della Coscienza di Zeno di Italo Svevo, assume nel nostro
caso toni ancora più apocalittici, legittimando persino una
delirante Elegia al Nazismo, dove la tara storica hitleriana assurge a
emblema universale del male da avversare e sconfiggere, a condizione
umana corrosa fin nelle più riposte viscere: "Nel mio mondo
ideale/Fare il male è cosa buona e giusta/Ed il perverso
è proclamato santo/Ed il giusto scacciato come lebbroso.''Nel
mio mondo ideale/Il pregiudizio e l'egoismo/Dettano legge/E ci si
abbandona come bestie/All'orgasmo della violenza."
Luca De Biasio riemerge dalla distruzione di ogni valore con
"un'indefinibile speranza" che avverte dentro di sé "come
inarrestabile fiume". Se la degradazione è quella descritta in
questi testi, la speranza appare ben poca cosa, tuttavia interessa che
sia stata evitata la gravosa lacrima della malinconia a tutti i costi,
preferendo il ghigno ulceroso di chi sa che vivere poeticamente
comporta una certa dose di stravaganza e contropensiero.
La superficie del vento è a suo modo un libro provocatorio,
costringe a guardare fino in fondo nella violenza della
normalità, per questo adotta codici plurali, anormali, per
stratificare lo spazio (un Oriente incerto, l'Occidente anonimo di una
qualsiasi dimensione urbana), induce a dilatare il tempo (il confronto
epocale fra Tao contemplativo e Logos agonico), ritorna a pluralizzare
il linguaggio in una comunicazione sovrapersonale, senza barriere, in
cui ritrovare una comune identità umana. Si giustificano allora
i versi composti in Inglese ("Of this world filled by madness"), in
Francese ("Notre voyage jamai a eu un début"), in Spagnolo
("Està luna sin rostro"), in Portoghese ("O Emperador nào
se diverte").
Riguardo allo specifico della versificazione, Luca De Biasio rinuncia
alle grandi modellazioni del ritmo, all'enfasi, all'evocazione
suggestiva, per scrivere di occasioni minime, di cronache amorose e
amicali, di una piccola demiurgia dei fenomeni atmosferici (il
ricorrere quasi ossessivo degli stoicheia primordiali, terra, acqua,
aria e fuoco).
L'Autore insiste su un lessico primario, stabilendo la precedenza delle
figure sintattiche sulle abusate metafore; adotta quasi sempre una
struttura paratattica che cammina sulle tracce di un canto popolare
("II vento strappa l'erba secca/La polvere si alza e scompare nel
sole/Il cielo azzurro si accende e si spegne/E non ci vede, e non ci
crede. ")
Luca De Biasio ha teso da un luogo all'altro la corda dei suoi versi
per appenderci i segnali di una volontà disperata, di un
nichilismo che intende provare, come il maestro Nietzsche, a far
germogliare il Nulla.
Donato Di Stasi