GEOMETRIE DEL DIS-PIACERE
Dal marchese de Sade al borghese Pirandello
Le grazie brune è un'opera cruda e sanguinante sulle giornate degradate di un giornalista, Mania Moresi: le sue storie si compongono e si frantumano, assommano tutto l'annoiato e feroce andirivieni del sesso fast food, assecondano la tessitura discontinua di corpi tramati da una disperata ricerca di continuità, ricorrono alla minuzia fiamminga dei dettagli, ammantandosi di un convincente realismo, pur se intinto nel calamo scapigliato e grottesco.
Le grazie brune impenna in atmosfere rarefatte, sospese, nelle quali gli episodi rifluiscono uno nell'altro, avversano il vuoto, l'omissione, il mancamento dei nostri anni ambigui, moltiplicando i piani-sequenza al modo degli ineguagliabili Coniugi Arnolfini (1434) del pittore Van Eyck.
Il tratto distintivo di questo lavoro di Velio Carratoni è nell'e-spandere l'unicità del vissuto nella molteplicità di convegni sessuali furiosi, ossessivi, rocamboleschi; nel dilatare il chiuso di interni agghiaccianti nell'aperto di una metropoli dissonante, vitale, torrentizia.
Le grazie brune è il romanzo della vita che rompe la finzione sociale e tramesta la sua necessità a essere vera, così non muore mai nella mente del lettore, essendo la quintessenza del negativo che a rivoli scorre sotterraneamente nei nostri anni, altrimenti ubertosi, scintillanti di benessere. Si fa strada nelle pagine un mondo di carne e di parole, condotto verso conclusioni antinichiliste, asserendo l'avversione alla solitudine, l'assurdità della vita d'ordine, la refrattarietà all'egemonia estetica del sesso-cibo-denaro.
I personaggi del romanzo, frastornati e vocianti, si trascinano dentro una contraddittoria incomunicabilità. Si aggirano in una Roma estiva, sconcia e barocca, deformati dall'"afa della vita" (l'espressione è di Pirandello), interamente catturati da un gioco sofistico di geometrie affettive, per tentare di produrre una crepa nei tabu sessuofobi della collettività; per questo accettano il paradigma
erotico come orizzonte ultimo di comprensione delle cose. Risalta il pensiero messo a nudo nella metafora della svestizione delle membra. L'eros attraversa ogni piacere possibile e ristabilisce una contiguità intima con le cose. Nel contatto fisico i personaggi cercano il luogo di una testimonianza inequivocabile di sé, la rivelazione della propria immagine riflessa. Congiungere e disgiungere corpi, provocare pericolose miscele di sentimenti conduce a variazioni analitiche e a deduzioni dialettiche di una coscienza ipercritica, largamente consapevole dei processi storici, politici, sociali, per evitare facili cadute nell'epoche scettica.
Lorise, una delle prime donne a comparire nel romanzo, in forma distesa e esplicita elabora la sua vocazione alla trasgressione dirompente:
A me, ormai, piace andare anche con dieci uomini, durante lo stesso giorno. E se capita, anche con un numero maggiore. A me non interessa l'uomo, ma tante persone diverse con cui... sentirmi. ..libera... (pag. 21)
Si sbaglia tuttavia a ritenere che la narrazione privilegi l'esclusivo argomento sessuale, in ragione del fatto che Le grazie brune si articola su materiali complessi: il naturalismo senza fronzoli, che sconfina nell'accensione visionaria come nel migliore Zola; il saggio postfreudiano dentro l'autoconfessione dell'io ipertrofico di turno (il romanzo si snoda lungo un'ininterrotta teoria di dialoghi maieutici); il ripensamento delle tesi della scuola di Francoforte (Adorno e Marcuse, in particolare) secondo i temi della falsa e abbrutente totalità sociale, della critica all'istituto autoritario della famiglia totem, della voluta cancellazione della pulsione erotica in favore del ciclo interamente terreno di produzione e consumo; la mezza luce riverberante sulla tradizione letteraria del Novecento italiano, spezzando e condensando l'intensa narratività di un autore ingiustamente dimenticato, Enrico Emanuelli (1909-67), che nel 1943 pubblicò La congiura dei sentimenti, per alcuni versi antesignano delle Grazie brune. Anche Emanuelli considerava la vita un oggetto da gettare lontano verso un'impossibile libertà. Come Mania Moresi, Arno è un protagonista senza azione: provoca gli eventi per subirli, analizzarli, cercarvi solipsisticamente un senso.
Le grazie brune è una descensio ad inferos, sostenuta da una scrittura aperta con labili tracce di fabula inconclusa (storie d'amore che hanno un inizio invisibile e una fine ancora più misteriosa), ma con una possente stratificazione dell'intreccio che genera labirinti angosciosi, madidi di sudori e afrori, di liquidi organici e melmosi:
Sento la tua saliva scendere dentro di me e ingoiandola è come se mi trasmetti la tua dissociazione o frantumazione. È questo che infondo voglio da te. Mi lecchi piangendo, mentre ho rifiutato la penetrazione consueta. Sollevandomi le gambe fin sopra la scrivania, prosegui a bagnarmi con la tua saliva amara e schiumosa. Non provo alcun piacere, ma solo un desiderio di raffrontarmi con te, senza volerti comunicare nulla,
(pag. 67)
L' autore, Velio Carratoni, è uno scrittore cresciuto alla scuola libertina; lucido e intransigente illuminista, non ha nulla della posa intellettualistica o dell'ipocrisia benpensante: il suo intento non è di scandalizzare, quanto di ingiungere riflessione sulla natura elementare e biologica della corporeità.
Al sesso venduto e consumato, alla pornografia patinata delle riviste, alle immagini cinematografiche codificate e bacchettone, Carratoni oppone la violenta immaginazione delle 120 giornate di Sodoma del marchese De Sade, dimostrando di avere coraggio nel proporre un tema scabroso e censurato, dispensandoci al contempo di sorbire tristi e melense storielle tardofamiliari come usa nella narrativa
à la derniere mode.
Le grazie brune spegne i riflettori della mediocrità mediatica e sollecita le facoltà logiche per spezzare il cerchio del conformismo. In questa direzione il sesso si dimostra continuazione e negazione secondo un bisogno di dissoluzione che sfaldi il limite difensivo e giustificativo in cui l'ipermassificazione ha rinchiuso l'esistenza.
Sotto le apparenze di un 'efficienza automatica il leviatano tecnologico leviga, pulisce, imbianca, cancella odori e fetori, pur di imbellettare i corpi e assegnare loro le sorti di un'eternità spicciola, ridicola, inattaccabile dalla finitezza con cui si viene al mondo e da cui si è accompagnati come una seconda natura.
Velio Carratoni dimostra sicure doti nel trattare ideologicamente l'anormalità, la differenza, lo scarto, con ciò supera il rischio della morbosità e ci affida un lavoro letterariamente e sociologicamente valido, rimanendo il sesso
il punctum dolens per l'uomo occidentale, passato dalla castrazione religiosa alla perversione della
modernità, la quale pretende la libido indirizzata al solo lavoro, non
al perditempo della felicità.
Carratoni riserva numerose pagine alla questione dell'identità, osservando come al posto dell'individuo agisca un'ombra munita di sigle, numeri, timbri, carte; una fisionomia meccanica inscalfibile, a differenza della dimensione carnale-sensibile "che dentro di me sento imputridire" (pag, 11). Viaggiano per il mondo automi numerati, mentre ciò che un tempo era stato l'io assiste alla sua dissoluzione filamentosa.
I personaggi delle Grazie brune provano a ribaltare la dittatura delle parvenze (si era già visto nel Dorian Gray di Oscar Wilde), ricostruendo la loro personalità attraverso il superamento della vergogna, dello scandalo, della noia, generati dall'incontro con l'Altro. Ad agire sono personaggi-simbolo, per nulla letterari, o affettati, che risalgono a fatica dall'abisso di ignominia in cui la Tecnica li ha scaraventati, scorticandoli di parecchie illusioni. Da un lato Velia Carratoni annovera le convenzioni che solidificano la prigione sociale, dall'altro richiama la forza, la violenza verbale dissacrante contro la genericità dei rapporti, contro la muffa burocratica delle coppie istituzionalizzate:
Sono dolce, ma vorrei prenderla a calci, o colpirla furiosamente con un arnese o utensile appuntito sulle spalle, le braccia, i gomiti. E per accrescere la violenza, vorrei soffocarla con il vestito che ha tolto... per levarla di mezzo, dato che sento che ormai di lei non posso fare a meno e ciò mi disturba, mi schiavizza, (pag. 101)
Di questo romanzo mi piace sottolineare la convinta adesione alla realtà, la linfa vitale autentica che scorre nei corpi, finalmente non siliconati, né cosmetizzati all'eccesso. La bellezza non compare come uno standard, piuttosto come una linea sottile tra armonia e disarmonia: entrano in scena corpi prosperosi, pieni, irregolari; fat-tezze fisiche pronunciate, gambe non belle, cosce e polpacci "in risalto... di ossature sporgenti" (pag. 42); piedi niente affatto graziosi, caso mai comuni e quasi storti.
Le grazie brune è un'utopia rovesciata. Distrugge per ricostruire, alla maniera di De Sade: le sue storie sono marce, nel senso letterale della parola, prive di redenzione (che nessuno vuole), nevrotiche perché provano a frantumare gli schemi geometrici a cui
l destino-arbitrio le ha assoggettate. Sembra che le analisi ossessive, di cui le pagine abbondano, abbiano lo scopo di sfondare il nulla, nella volontà di riportare l'individuo a una condizione concreta, primigenia, vitale, umanissima.
Per capire quale desiderio palpiti dentro le strettoie delle convenzioni culturali, quale ansia provochi l'indefinibilità, la precarietà del reale, Velia Carratoni costruisce il suo originale teatro pirandelliano di laici agguerriti, che discutono sempre, si confessano, registrano ogni minimo e insignificante episodio nella verbalità. Costretti nel loro milieu medio borghese, i personaggi, opportunamente demacchinizzati, entrano e escono da se stessi, cogliendosi nel pensiero tra l'uggia del vuoto e la furia dei piaceri mancati.
Dentro a un cerchio di individui macchiati dal disincanto, in perenne lotta con i condizionamenti sociali, invisibili e striscianti, si dispone un quadrilatero di infelicità: Mania, Lorise, Giada, e Monica.
Mania Morest, voce narrante, giornalista, asserragliato nella sua alcova-bunker, è l'uomo intermittente che getta sulla graticola del dubbio tutte le istituzioni: famiglia, chiesa, stato, scuola. Le sue perplessità non risparmiano alcun aspetto del vivere civile, come se ogni azione fosse sempre fuori chiave (per rimanere nella metafora wagneriana, centrale nel romanzo).
Mania Moresi non si abbandona mai al sentimento (quale esso sia): lo studia, lo notomizza, lo ricompone nella sintassi del cervello, lo aggettiva nel dialogo per liberarsene attraverso smorfie e turbamenti, ma oltre a sconcertare l'interlocutore di turno non ottiene granché. Pensieri fittizi confliggono con propositi futuri per lo più disattesi: il suo rancore appare evidente nel non riuscire a strappare alle figure femminili che seduce una credibile verità da incollare alla sua grama esistenza.
Egli accetta quasi infastidito, senza un vero motivo la compagnia delle donne che lo attorniano, mentre vacilla il suo progetto di rimanere estraneo a tutto: l'esperienza mantiene per lui un fondo di oscurità ineludibile, sottraendosi sistematicamente al suo tentativo di capire e possedere qualunque certezza:
Con il sesso, vorrei solo conoscere, penetrare nelle cose, anche le più proibite e distorte, (pag. 171)
E così forte il suo bisogno di rinascita che, nel primo incontro con Giada si fa sputare in bocca per restare gravido dei suoi umori e partorire un'altra vita, una qualsiasi, purché divena dalla mostruosa normalità che lo attanaglia; una nuova vita che sugga da ogni donna o uomo che incontra i pensieri, le emozioni, le sconfitte, le esaltazioni. Più che un'ossessione il sesso appare la crisi indispensabile per difendersi dalle delusioni soffocanti. Coscienza lucida, malata e sanissima, invasa da un'inquietudine senza fondo, Manto Moresi si lascia vivere in modo irresponsabile, salvo applicare ai propri dialoghi un principio di massima responsabilità, quanto al tentativo di reiterare un imprecisato senso di colpa.
Manto Moresi risulta un personaggio voraginoso, nelle sue parole s'imbuca un'epoca intera, mentre sfilano storie pesanti, devastanti, autoerotiche e eteroerotiche, eppure slanciate nell'immaginazione a una verticalità di sentimenti collocati in intermondi epicurei.
Manto collide con la vita, rifiuta il lavoro di giornalista, vorrebbe disfarsi della casa e del patrimonio: un Alfonso Nitti di sve-viana memoria, un inetto, anche se meno ingenuo, meno ottocentesco, forse con la stessa convinzione di racchiudere dentro di sé tutto il male esistente fuori di sé. Questa la ragione della sua inevitabile sconfitta e a un tempo della sua immeritata vittoria, o grandezza.
Mania Moresi non è il sanguigno Don Giovanni (il canto del gallo dei sensi, la passione del desiderio), non è lo spirituale Faust (l'amore promesso, ma inat fingibile dalle forze umane), non è il pallido e nordico Casanova (il desiderio del desiderio), è il cavaliere kierkegaardiano con una spina nel cuore; rinuncia alla vita ordinaria per traballare sulla nera deriva della trasgressione. L'unico viatico parrebbero essere le parole, in apparenza intatte e inviolate, invece toccate dallo stesso imbarbarimento, dalla consunzione e dalla degradazione dell'esistenza: Manio non può fare ameno di notare che tutto è
una recita da sonnambuli
vacillanti, sotto l'effetto di narcotici devirilizzanti che la meccanicità della vita di tutti i giorni appiattisce e rende qualsiasi... (pag. 112)
Lorise, il secondo lato del quadrilatero, è una persona scissa, alienata, forestiera della vita, impossibilitata a realizzare una vera identità; si dibatte nella duplice natura di donna molteplice per gli uomini a cui si vende e di donna unica per Marno che rifiuta il rapporto monogamico tradizionale, preferendo scrutarla nei suoi commerci carnali dal palazzo di fronte.
Lorise è spiata per ore e ore, non solo negli incontri sessuali, ma in ogni dettaglio della sua giornata: dalla mondatura della biancheria intima, alle abluzioni personali, dal maquilllage alla vestizione, passando per la depilazione e la scelta dei colori per il trucco.
Lorise è una donna di vetro, uno specchio, in cui riflettersi e perdersi, ben sapendo Mania Moresi che la sua impossibile passione è sostenibile solo nel gioco:
Se non emergesse l'effeto Indico, anche in fatto di linee, di effetti, la realtà sarebbe monotona e statica, (pag. 188)
Anche Giada (la terza linea spezzata) è osservata di continuo, anch'ella mette all'incanto sé stessa, elencando con scaltrezza la lista degli accompagnatori casuali, abituati a volgere ogni cosa in mercé. Giada si lascia contemporaneamente coinvolgere dalle malversazioni di Mania, eppure preferisce scomparire, disseminando segnali oscuri e tenebrosi. In un punto al mezzo tra lo stato di veglia e la fantasticheria surreale, ella rappresenta la fuga, il viaggio (si leggano le suggestive pagine delle corse in macchina), indubbiamente una strana figura di puttana santa, disposta a distruggere la sua vita e quella del suo amante, dinanzi ali'irrealizzabilità del contatto intcriore. La vera disperazione si palesa nella convinzione che non si può vendere o comprare il desiderio, non si può sfuggire all'ovvietà, assaporando la libertà della scelta amorosa dappertutto negata.
Recalcitrante a ogni inquadramento, Giada assume le sembianze di una classica donna-demonio, tra la Nana di Zola e la delia di Pavese; scavata nell'animo da una furiosa paura, è incapace di rompere la scorza del suo perbenismo piccolo-borghese, nonostante la proclamata libertà sessuale e la strabiliante messe di relazioni che vomita al suo amante più presente, Manio
Moresi:
Ho capito che aveva bisogno di una femmina, da come mi guardava, gli occhi truci, leggermente ravvicinati, in un segno continuo che a guardarli sembrava non ci fosse l'occhio destro e sinistro, ma un unico sguardo in cui
ho visto concentrato il male del mondo... Ha voluto mettessi le gambe allargate da una parte e dall'altra sul cruscotto, mentre lui, sceso a terra, ha cominciato a leccarmi in ogni angolo... (pag. 116)
La geometria del dis-piacere si chiude con la vicenda aggrovigliata, con le congetture e i sofismi della diciottenne Monica, adombrata dall'autore per analizzare il proteiforme serraglio giova-nilistico, perso fra agognate posture edonistico-individuali e una recrudescenza di antiautoritarismo familiare e sessuale. Colpisce favorevolmente la capacità di Velia Carratoni di evitare i luoghi comunissimi della gioventù bruciata, presto in cerca di giacca-cravatta e tailleur, non appena passati i bollori adolescenziali. Ne viene fuori un ritratto convincente e crudele a suo modo.
Monica sembra ritagliata dal cliché della desueta commedia naturalistica (il triangolo lei, lui, l'altro), quando si presenta al proscenio in compagnia di un fidanzato banale e anonimo, che tradisce continuamente con il protagonista e con altri uomini, ma a questo punto le sue riflessioni pungenti riescono a svuotare la situazione dall'interno, rendendola funzionale all'universo diegetico delle Grazie brune. E l'occasione di una dolorosa maturazione: la lacerante dicotomia tra l'adesione di Monica a una visione reazionaria della politica (in particolare le considerazioni relative all'inutilità delle lotte operaie) e l'affannoso superamento, tutto rivoluzionario, della coppia nucleare oppressiva, decretata dai genitori come unica sanzione di normalità. Avversa al modo aristotelico-cattolico di intendere l'aggettività del reale, Monica sostituisce il proprio relativismo distruttivo alla clonazione imperante, impegnandosi in uno scontro serrato con il divergente punto di vista
di Manio e con la sua stessa malata sessualità:
Credo, Manio, che con il passare del tempo, non potrò fare a meno di cercare intimità con una donna. Immagino come dovrà essere. Mi servirà, un giorno, per sfogarmi, ricordare il tempo trascorso, liberarmi della solitudine. Mi crea difficoltà, però, la pratica di un contatto fisico, fine a se stesso. Preferirò un contatto psicologico... (pag. 173)
Quando si approssima al tavolo operatorio sociale, Velio Carratoni non lesina di imbrattarsi di sangue, di umori, di secrezioni, contornando i personaggi principali con altre figure collocate
in posizione marginale, ma ancor più rivelataci di significati: Rossana, donna florida e ben tornita, dall'inquietante doppiavita; Silvia, decisa a non appartenere fissamente ad alcuno e finita nella più vieta condizione di sposa; Lucia, capace di sentirsi viva solo nel torbido, nel proibito, nel diverso. E con loro un prato pagano di apparizioni: il regista-scrittore radical-chic, la coppia di esibizionisti incontrati al ristorante, la pletora turbinosa di assatanati di esperienze erotiche, intenzionati a sovvertire nella sessualità la mentalità impiegatizia dominante.
La natura umana non può essere reclusa a un disegno letterario, grida la sua rabbia, reclama la sua realtà. Il pornomondo rivoltante e arrendevole che si agita nei capitoli del libro trova fiato nell'apparizione lacustre del fantasma di Wagner: occasione per una virata nel fantastico e per svolgere sapide considerazioni sulla morte dell'arte e del sentimento, quale risultato del totalitarismo tecnocratico che ha meccanizzato fin le viscere più riposte dell'individuo:
In campo artistico, per esempio, tutto risulta manipolato e rimpicciolito. L'arte è divenuto prodotto di mestiere, (pag. 35)
Come non avvertire nelle parole dello spettro del musicista tedesco un peana contro la riduzione dell'arte a sovrastruttura dilettevole fine a se stessa, in un'organizzazione produttiva che ha rivolto il saluto definitivo al caro estinto, all'intellettuale organico, ridotto a funzionario culturale, vale a dire scartabellatore di infimo rango e promotore della sola cerchia dei suoi accoliti e sodali?
Wagner in tunica e fasciatura alle gambe non desta una grande impressione, se non una enorme tristezza per come l'arte viene trattata oggigiorno nella Bastiglia di cartone dell'impero televisivo.
L'altra apparizione mefitica concerne una fantomatica scrofa, un essere teriomorfico che dialoga con la donna sgraziata della contemporaneità:
Scrofa: "Perché mi imiti?"
Donna: "Sei l'animale più avido. Desideri abbuffarti di tutto. Ingoiare è una bramosia che ti rende attratta verso ogni sapore, odore, anche il più nauseabondo. La tua appetibilità non ha limiti. Ti rassomiglio e per questo ti imito, (pag 74)
Su tutto prevale l'impressione di una generale perdita di senso, di una caduta irrimediabile nell'irrazionale, viste le situazioni narrative che costituiscono il romanzo.
Di tale assurdità era venata la poetica pirandelliana, nella quale si definiva la vita una "pupazzata", Le grazie brune non è da meno dando voce a una recita di manichini, privi di naturalezza e di sensibilità, che si spostano a scatti, bruscamente, in pose circolari che ripetono al livello della finzione letteraria il disagio di una società chiusa e intollerante a ogni reale cambiamento.
Quanto alle notazioni stilistiche, Velia Carratoni, abile man-trugiatore di carte, antepone filtri grotteschi alla lente analitica-visionaria. In un'oltranza allucinatola dirige lo sguardo verso un'immagine plenaria di retrostilnovismo, se mi si passa il neologismo, visto che d'amore e d'intelletto si parla, di ragionamenti amorosi e corporali, sebbene in forma corrosiva.
Velia Carratoni conferma una precisa idea di linguaggio che rifiuta le gerarchle della bella forma e del cattivo stile, del livello alto e basso, dell'umile e dell'aulico, del sublime e del quotidiano: ogni reperto viene accolto nella frase con pari dignità.
La strategia della scrittura muove dalla scioltezza del parlato alla fitta Decorrenza di incisi biologici e antropologici (per esempio gli studi di Piero Camporesi sulla corporeità nella storia). Architetture paratattiche e nominali, rapide e enunciative, vengono alternate a tranches filosofiche, a citazioni letterarie secondo un uso polifunzionale della lingua, che si effonde a raggiera per contemplare allusioni, elusioni, reticenze, epifonemi.
I minuziosi protocolli sintattici differenziano ampie volute in stile classico da brevi sentenze, ellittiche e imprevedibili. Il timbro narrativo è dissonante, sotteso da registri che servono adeguatamente allo scopo di un romanzo polifonico, orchestrato per suoni atonali, mai mielosi o epigonicamente lirici.
La combustione estrema delle parole si consuma nel ricorso al discorso diretto per dipanare, in un dialogo di stampo platonico, l'aggrovigliata coscienza dei personaggi.
Le grazie brune si dimostra un'opera eclettica, ricca di contaminazioni: la descrizione, l'enunciazione ideologica, il parlato teatrale, la riflessione in forma di trattato, così come le frasi attingono alle più disparate famiglie semantiche, per offrire al lettore un
caleidoscopio di suoni, di significati, di rimandi etimologici.
Vorrei
dire che la scrittura rifugge dall'enfasi, dal compiacimento, dal
voyeurismo che in questi casi è sempre in agguato: Velio Carratoni incide
il suo bisturi letterario in una materia, la sessualità, oscura e
inquinata da pregiudizi storici; ci consegna un romanzo degno di essere
annoverato nella migliore tradizione libertaria.
Donato Di Stasi |