La poesia di Franco Capasso si è svolta, a partire dal suo iniziale Punto barometrico del 1976, conservando inalterate alcune costanti. Queste costanti potrebbero essere individuate precisamente ai due livelli della forma e del contenuto. A livello della forma, si trova una attenzione alla disposizione spaziale dei segmenti linguistici che sfrutta la suddivisione del verso creando sulla pagina sviluppi visuali e iconici, secondo l'uso delle scansioni e degli spazi bianchi. A livello del contenuto, emerge l'utilizzo di materiali "psicologici", tratti dalle zone intricate e magmatiche dell'Io. Con il che s'individua subito un contrasto "strutturale" (del tipo freddo/caldo) tra l'operazione geometrica e distanziante (di linea mallarmeana) e l'emersione e pressione di elementi primari (di linea
rimbaudiana e surreale). Anche nella nuova raccolta Miraggi è possibile vedere all'opera questo "doppio movimento", che articola il verso e lo spezza, nel mentre consente di guardare a fondo nella materia del dolore, nella formazione e nelle crepe dell'identità, individuale e collettiva.
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Raccogliendo le fila di una poesia decisamente frammentaria, riscontriamo innanzitutto che i materiali che vengono sottoposti alla disseminazione spaziale hanno provenienze diverse: inizialmente sembrano tratti da istanze collettive, vuoi del mito (Ulisse e Circe), vuoi dell'avvicinamento tangenziale alle catastrofi storiche e ai mali del mondo (ci si
imbatte nella «furia nazista» contro un villaggio cancellato; poi le «grida straziate / di donne e bambini», ecc.); alla fine, invece, sarà l'Io a venire direttamente sul proscenio, magari per preparare - come vedremo - la propria virulenta ripulsa. Nel suo corpo mediano, poi, il libro sembra assestare la sua preferenza verso un panorama di elementi archetipici; una varia combinazione tematica di acqua-aria-terra-fuoco, nelle loro complesse occorrerne, in cui si alternano e si compongono la fludità (il fiume) e il volo (gli uccelli), il calore del sole e la durezza della pietra. Questi elementi primari, che si susseguono in brevi spazi e ritagliano la loro presenza nel verso frammentario, garantiscono un tessuto su cui l'immaginazione poetica può fondare i suoi balzi: e su cui può riprendere respiro proprio il potere della poesia , ormai compresso e messo a rischio nell'odierno universo funzionalista (è vero, «tutto sarà perduto», ma «rimarranno le pietre / e l'acqua che scrive l'origine», e poi «la terra fiorita» insieme a «un vivo sole» - i quattro elementi ci sono tutti - e, infine: «l'armonia risorge»).
Ma quello che si apre - in questi testi - non è certo un simbolismo cosmico o una religio dell'inconscio collettivo; l'individuazione dei motivi elementari non è il punto d'arrivo ma il punto d'avvio (vorrei dire: la base) di una dialettica poetica di ascese e di cadute. Ascesa, quando l'operazione di segmentazione e disposizione nello spazio viene a proporsi come depurazione delle materie utilizzate («una storia pura come il fonte puro», ecc.) e questo avviene qui soprattutto attraverso l'astrazione dei colori che costituiscono un altro tessuto di ricorrenze testuali molto forte ed evidente. Ma caduta, quando la forma viene intesa come rottura incomponibile di un intero
violentemente andato in pezzi («si spezza contro i punti cardinali»; e: «le catene sono frantumate»), e quindi come ricerca precaria tra «brevi tracce» e sconsolati «detriti», in cui il testo non può risultare altro che una raccolta di dissonanze
(«Accumulo dissonanze», ecc.).
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Caduta che diventa ascesa, quando l'uso degli spazi bianchi appare come espressione del vuoto, spazio «senza fondo» della cancellazione e del silenzio, dell'assenza («i fratelli perduti nella corsa / non ritornano / e la tavola rimane senza commensali»), luogo dell'annullamento in cui, tuttavia, può ancora risiedere una parola, per l'appunto la «parola nulla», che quindi si fa sede di un negativo capace di diventare, per via poetica, una considerevole chiave metafisica. E ascesa che è, allo stesso tempo una caduta, quando il testo perviene ai suoi punti di più stringente e stridente contraddizione.
Vi sono, in questo libro di Capasso, due particolari usi retorici: il primo e la tautologia (accostamenti con l'identico, come "ascolta l'ascolto", "il grido grida" e simili); la seconda è l'ossimoro (accostamento con il contrario, che riguarda soprattutto l'intensità: «mute voci»; «un quieto ardore», ecc.). Se la tautologia rimanda immediatamente al vuoto della parola che non aggiunge niente, l'ossimoro mostra invece una energia a stento dominata, una sorda tensione. Incontriamo, qui, un quarto senso della forma-frammento: quello della compressione. Le parole, nella disposizione testuale di Capasso, sono costrette a muoversi in spazi ristretti, assediate dai contorni della pagina non scritta. Tanto più agitate quanto più compresse: è una sorta di
"scatenamento bloccato" o di «correre da fermo», che coinvolge gli stessi elementi archetipici (ad esempio, in un
contraccolpo aria-terra, qualcosa «vibra nella luce», ma subito si irrigidisce «in una pietra»). Messe così alle strette, le parole risuonano come una «corda pazza», partono per la
tangente di una «lucida febbre».
Le ultime sezioni impiantano questi movimenti formali proprio là da dove essi nascono: nella consapevolezza problematica dell'Io. L'Io è per un verso aggettivato («Mi hanno preso come un baule», ecc.) dal peso della comunicazione e dell'intromissione sociale, per un altro verso è spaccato in due dalle diverse attrazioni che lo prendono («dal fondo profondo / del mio essere sdoppiato»). Il movimento psicologico è allora la frenesia bloccata della «mosca inquieta» imprigionata «nella bottiglia vuota». Le parole con cui l-'lo parla lo attraversano, ma non lo rappresentano. Dicono, infine, il suo altro («esisto / a rovescio / non esisto»). Dicono "l'incubo dell'Io". Non per niente, l'ascesa poetica trova la sua caduta più radicale - alla fine del libro - nel violento ripudio dell'identità («Oh così bardato fai orrore!»; sono le ultimissime parole).
Alla fine, il miraggio che Capasso ha assunto come titolo generale del suo libro assume tutta l'ambiguità delle sue sfumature, proprio se lo attribuiamo all'identità: l'identità è un miraggio, un 'illusione che ci sorge davanti ad ogni passo che facciamo; ma e anche qualcosa che si "mira", cui miriamo perché non possiamo farne a meno; ma poi, criticamente, si "prende di mira", nella sua conformazione semplificata ed inerte. La frammentazione poetica, resa naturale dai ritmi della modernità, produce la crisi: ma la crisi, sofferta nel corpo delle parole scritte, si trasforma in senso critico agli occhi di chi le legge.
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