La poesia di Serena Caramitti è una sfida alla grazia poetica, all'idillio, a tutto ciò che viene o veniva definito come femminilità. Lei sa che ogni donna ed ogni poeta si trovano, oggi, su una trincea: combatte per la propria libertà senza raccontare, se non per ellittiche allusioni, la propria storia e piuttosto badando ai destini generali, a ciò che nella vita dell'Io include gli Altri, al punto in cui l'esistenza invoca la coesistenza.
Si sa che questa — di un esistenzialismo umanistico — fu una profonda richiesta della cultura italiana del dopoguerra, ma rimase a livello filosofico, la letteratura preferì un neomarxismo piuttosto crociano o si abbandonò al vecchio gioco dei sentimenti. Serena Caramitti diffida dei sentimenti e non li lascia passare in poesia senza averli filtrati attraverso la ragione: questa ragione, però, non appartiene alla fredda misura del cosiddetto scientismo, è un'intelligenza poetica, cioè un « uso della parola », un'intelligenza del fare.
Come tale, ha tutto il diritto e tutti i poteri per occuparsi di ciò che sbrigativamente viene chiamato l'irrazionale e che poi non è altro che la materia scura, grossa, densa dei nostri giorni. Su questo magma, su questa morchia la Caramitti traccia il suo segno poetico. Un segno a volte esile, a volte brutale e tagliente; quando è taglio, ne sgorga un sangue esemplare umano. O si ode negli interstizi un pianto, un pianto remoto ed è questo a sostituire la grazia, introducendo nell'aspro discorso un sospetto di musica che è anche la traccia dì un pudore.
Ruggero Jacobbi