La penna dell'autore, Gianluca Di Stefano, svaria e scorre saltellante sul foglio, le parole si accavallano e inseguono, gli argomenti e i correlati contro-argomenti vanno intrecciandosi offuscando se non propriamente cancellando con ardita radicalità ogni sicura o anche insicura presunzione riguardo al presente. Sottratti come sono ad ogni lettura e modellazione consentanee alle molte facilità e ai risarcimenti ideologici, i testi lirici di Di Stefano lasciano trasparire un sentore di consumazione del luogo comune, anche un qualcerto disvanimento delle forme (e in primis del vocabolo primario e essenziale), L'invenzione non saprebbe distaccarsi di un punto dalla consunzione e crisi del mondo (Blanchot osserva in Faux pas che uno scrittore non potrebbe in alcun modo dispensarsi dal proprio progetto), ma è quella stessa consunzione ad essere messa in caricatura, a ritrovarsi stralunata e scomposta sotto la pressione forzante di un ritmo rapinoso e grottesco. "Che m-orale per-verso / abbi-amo eter-nato!".
Il più durevole o almeno il più ricordevole vestigio di questa ulteriore raccolta di versi di Di Stefano, dopo l'antecedente I mali del fiore, sempre edita per i tipi di Fermenti nella Collana Iride, è il fatto che almeno in parte essi si ritrovino inseriti in una sorta di gioco stilistico e linguistico, snocciolati e condotti e va da sé anche musicati con lepore e una sveltezza che non cessa di buffoneggiare ma allo scopo di raccontare più propriamente la "città-giungla" di un oggi conseguente all'attesa di futuro e di cambiamento (per dirlo con rapide e brevi parole "meteoropatiche" e stralunanti).
Pertanto, agli incanti e alle speranze subentrano le disillusioni, al volo pindarico che si protende in direzione dell'avvenire si sostituisce un volo "senza ali". Prende insomma corpo nella pagina un percorso "senza ideali" e correlativamente "senza ideali ali". Forzo un po'lo schema di Di Stefano citando da una sua composizione, ma alla resa dei conti lo schema dell'autore sa comparire all'interno dei suoi testi molto chiaro e preciso.
Così in breve, una onnivora incontenibile degenerescenza sembra trattenersi nelle parole che digitalizzano e marchiano l'impermanenza del tempo post-industriale. Non c'è nostalgia per le cose trascorse, per quanto già accaduto. "Il passato è un boomerang", non invece un sovramondo bucolico e un'occasione di salvezza. Le intossicazioni emotive e epocali vengono come numerizzate, quasi cavate di bocca all'ovvietà delle idee ricevute e delle frasi fatte. Trasportate in una struttura a schidione nella quale acquisiscono peso gli assunti di rima e consonanza, le inversioni dei concetti e dei sintagmi, le enumerazioni, ma allo scopo di raggiungere e dare la diffrazione, le dissonanze, una discorsività trafelata e sarcastica.
Ha "poesia adiabatica", per citare un lemma usato ed evidenziato, corre veloce e bisbiglia forte, nutrendosi di un "lirismo dipsomane" e semmai conformandosi alle "anfibologie del caso" come agli ingorghi talassici. Di Stefano accoglie nel ritmo e in queste sue curiose incrostazioni di non-sense che contrasta il senso comune se non un pensiero un atteggiamento verso il mondo. Butta su carta versi e versicoli per segnalare il normale derivativo esistenziale di questa situazione.
Per questo sa esulare da ogni protocollo di convenzione e non esita a colpire e a sovvertire i vocaboli stessi, bombardati e sventrati nella loro modalità corrente e restituiti a una effervescenza e a una radicalità nevrotica che mette in crisi il dato di fatto ma fa pensare che qualcosa stia sempre per accadere.
L'esistenza profit si contrappone all'io nella sua particolarità e nelle sue revulsioni. L'homo faber di fervorosa e provvida memoria si rinviene a proprio modo in un ingorgo e in un busillis: si ritiene ancora persona ma al contrario è costretto a vedersi oggetto storico d'affezione legato a una "ciclotimia" del ricordo e alle mille occorrenze della post-modernità. In tanta negatività e esuberante angoscia qualcosa eppure avviene. Quell'"animadversione" che quasi pare erigersi contro l'infimo e il volgare tradisce una linea di verità. Si muove infatti o pretende di muoversi a passo d'uomo - vedi il titolo del libro - non perché si sappia immersa nella vita vera oppure ritenga di sottrarsi ai limacci del tempo.
Viceversa, autorizzandosi dell'esempio del pirandelliano Mattia Pascal, sviluppa oppositivamente un pensiero che costeggiando parodia e grottesco si fa la mano per diventare, attraverso la poesia (la ritmica, le cesure, il battere e il ribattere, le reiterazioni, le intramature prosastiche, le inversioni e i sovvertimenti del cognito), un correlativo del tempo e persino un atto e gesto di ostilità e forse addirittura di guerra. Antipode al Novecento argomentante e critico come egualmente a retrocessioni favolose e astrattive e ad ogni evasione, la scrittura di Di Stefano trapassa velocemente la sequenza delle ovvietà negandosi la ponderazione e l'equabilità e invece rivendicando la forza di una logica estrema.
L'impeto nel dar forma a questa peculiare irrequietezza - nel punto in cui il disegno espressivo arriva a prorompere in gettito e veemenza creativa, in "vena ironico-meditativa" (così Donato Di Stasi) - è forse il meglio del lavoro e del modo distefaniano di volersi poeta, e comunque ne è la parte più evidente. Nella babilonica e claustrofobica confusione entro cui si è invescati, nulla preme in direzione di un qualche alleviamento e tutto invece stimola a un movimento espressivo che sappia dar voce alle residuali esperienze della quotidianeità e anche a una critica del nostro presente. Non è il merito minore di questa poesia.
Gualtiero De Santi