La musa è infelice, pièce di Gianluigi Cristiano, colleziona destini abortiti (bruchi condannati a non diventare mai farfalle), dimostra che gli uomini non meritano di esistere, avendo procurato al mondo solo derisione, bassezza, disperazione.
In una cupa ambientazione vetero-borghese, dove tutto è finto (dalla poltrona in similpelle nera, al manichino di una donna anziana, alla sagoma antropomorfa di cartone a grandezza naturale, al registratore portatile che sostituisce la voce umana), domina una neritudine, una sorta di buco nero esistenziale che cattura ogni cosa senza restituire nulla, come se tutto accadesse, o fosse accaduto alle spalle dei personaggi.
La scena è sovrastata da uno schermo sul quale vengono proiettate le immagini di una sconcertante quotidianità (una festa di Natale, i piatti da lavare, le solite imbecillità familiari del ritrovarsi e salutarsi come dopo un naufragio, un curioso concerto per chitarra, una bizzarra esposizione pittorica da parte del nonno sui mobili di casa), al proscenio arrivano degli androgini stereotipati UOMO, ALTER EGO e una GIOVANE DONNA che si muove con aria alienata fra le irruzioni dei GENITORI DELL’UOMO e i GENITORI DELLA MOGLIE (è proprio vero, per dirla con Ionesco, che le cose viste molto da vicino divengono ancora più brutte, più gravi, più insopportabili).
La musa è infelice rappresenta a suo modo un poema cinematografico se si considera l’inventario del più tipico linguaggio filmico (dissolvenza, flashback, stazione ferroviaria esterno giorno, auto interno pomeriggio) e l’alternanza di recitato e girato, che danno la stura a una vicenda (o meglio non-vicenda), semplicissima e stratificata, una sorta di via crucis borghese, disposta sugli incastri del cubo di Rubik, celebre rompicapo assurto alle cronache qualche anno fa, qui eletto a metafora della complessità, dell’aleatorietà, dell’assurdità dell’esistenza (il mallarmeano colpo di dadi che non può in alcun modo avere la meglio sulla casualità dell’esperienza).
L’intreccio procede per contrappunti e intermittenze, senza mai descrivere un tempo storico-naturalistico evolutivo per quanto concerne caratteri e psicologia, a meno che non si voglia considerare la progressione elementare aritmetico-temporale di UOMO, ripreso e proiettato in scena a 16, 19, 22, 25 anni.
Il decoro piccolo-borghese e una certa ideologia anarchico-conservatrice costituiscono i mondi d’elezione di La musa è infelice, ricettacolo di personaggi afflitti da doppiezza, inquietudine, rovelli, nevrosi, capaci di sgretolare le frasi e di trasformarle in pura materia sonora; si tratta di un’originale petite musique, ottenuta con i detriti del dialetto siciliano, dell’argot, sorta di francese e spagnolo maccheronico, del parlato italiano più negletto e quotidiano (“IL PADRE DELLA MOGLIE: Ma chi ti riss ti chiama? AH! Un figghiu un sa fira a campare centu patri!; IL MAESTRO: All’inizio es solo un hueso. Despues, si lo annaffi con criterio”; YVES: Pierre, pourquoi dans ce livre il n’y a pas ta dédicace; PIERRE: Chi cacchio si crede di essere per snobbare in questa maniera presuntuosa e irriverente la mia dedica sul libro! Ma vaff…!”).
Tutti i personaggi sono come sfatti, spolpati della loro individualità e immersi in un labirinto di segni (lacerti di diario, reperti filmici, registrazioni audio, musiche di scena, flussi nebbiosi di teatro in sé); nel crepitìo e nelle seduzioni del consumismo planetario non rimane che trotterellare da un centro commerciale all’altro, gesticolando, afasici o urlatori, oppure stendersi come cadaveri su un letto, su un divano, su una poltrona e intanto rimpiangere una vita più autentica.
Il lettore non troverà in La musa è infelice effetti risolutivi, né la terribile purezza di un rinvio, o di una sospensione metafisica: si imbatterà al contrario in una cinematografica dissolvenza che celebra il silenzio e il mancato scioglimento delle vite dei personaggi in scena.
Spinosa, Schoenberg, Pirandello, Pinter (evocati quali numi tutelari della pièce) accertano ormai in maniera definitiva l’incapacità del teatro tradizionale di continuare a significare, perché ogni tragedia vera se ne sta a monte, ogni schianto psicologico rimane pregresso: in realtà tutte le rivolte sono state già compiute e in modo radicale e feroce nel passato, e tuttavia non hanno migliorato l’umanità, né l’umanesimo, per questo Gianluigi Cristiano può proporre solo frammenti, lasciando al lettore-fruitore il compito di montarli, legittimarli, dotarli di senso e significato a puro piacimento personale. Chi voglia farsi largo fra inespresso e celato, non ha che da inoltrarsi nelle sconnessure tematiche, nelle lievi, catastrofiche trasgressioni linguistiche (“IL NONNO: Questa è l’unica cosa che resta di noi dopo la morte. Cosa hai fatto, chi sei stato, non se lo ricorda più nessuno. Piccioli, proprietà, nìante! Tutto si sono divisi. L’unica cosa che resta sono le opere d’arte di una persona”).
Cantore di una straordinaria Finis Siciliane, Gianluigi Cristiano non è autore da sopravvalutare (con intenti di occasionale piaggeria panegirica), né da ignorare: senza divagazioni teoriche, si può sottolineare la sua ricerca di un’opera multipla (teatrale, cinematografica, letteraria), documento di una passione matura e vibrante che intende tirare le somme circa la condizione umana attuale, tragica e tragicomica a un tempo.
Donato Di Stasi