Ci si può riposare dagli strapazzi della modernità, incuneandosi nell’intercapedine tra nausea e routine, ritagliandosi uno spazio di sano divertissement letterario, capace di portare benefici alla coscienza disastrata e squartata; e così in una ipotetica sera “d’asfalto e astri”, quando si accendono i lampioni corrosi dalla ruggine, come fossero “ciclopi indifferenti al sole”, uno strano giocoliere, un flâneur, un curioso funambolo attraversa piazze vuote e trafficate, s’imbozzola nel passato dei sentimenti e volteggia libero nel presente verso le nostre menti mutile “che deridono i baci”.
Un poeta mediocre si sentirebbe in obbligo di nascondere sotto un mucchio di circonlocuzioni e abbellimenti le solite poesiole sentimentaleggianti, trite e ritrite, il nostro autore, no: egli ha sentito di potersi assumere di trattare una materia vecchissima (l’eros) e di farne una materia affatto nuova, con assoluta fedeltà al vero, riuscendo in una scrittura oggettiva e corale circa la passione amorosa, indagata nella sua completa fenomenologia (“Al Vicolo dei Baci/tra avventori/e residenti/e i veterani del posto,/nessuno mi ha saputo dire/se già c’erano/o ce li hanno portati”).
Ciò che mi afferra maggiormente in questa versificazione è, oltre alla sua realistica sincerità, l’arditezza dell’artista che riesce in maniera semplice, senza fronzoli a comunicare con il lettore.
Parole con il bacio confonde e rimescola elementi sacri e dissacranti (l’erotico e il ludico), riporta in superficie la dialettica di fecondità e sterilità, illustra l’infantile feticismo del bacio, così che le sue parti più riuscite nascono dall’impatto del desiderio contro le corazze e le sedimentazioni materialistiche del gusto corrente; si propone inoltre come un libro leggero (per la beneaugurata mancanza di letterarietà), pungente (per il continuo ricorso a una sapida ironia), arioso (per l’ampia curvatura spazio-temporale delle situazioni descritte): si tratta di un monolibro monotematico, ma non monotono, sul bacio inteso quale hapax legòmenon dell’amore, ossia evento unico e irripetibile, sebbene ripetuto a iosa in ogni storia di sesso e d’amore (“Denaro e buone maniere/non ne avremo/mai a sufficienza;/perché non provare/a collezionare baci?”).
Gianfranco Proietti non lesina di scartare con il suo piglio ghignante carta da cioccolato per scoprirvi, non uno sdolcinato frasario veterosentimentale, bensì quella sapienza rapportabile al sermo cotidianus dei proverbi (“Si/raccoglie/la farina/dell’amore/da un chicco/di grano/e un bacio”).
Ai mille baci catulliani, ai baci trepidi danteschi del V dell’Inferno, ai baci mancati di Petrarca, ai baci lussuriosi di Aretino, ai baci libertini di Casanova, ai baci neostilnovisti di Montale, si succedono i megabaci di questi nostri tempi ferocemente buonisti: fanno la loro comparsa baci aulenti, baci denudati, baci graffianti, baci di vergogna, nient’altro che l’immagine paradisiaca del bene supremo che si vorrebbe dare e ricevere.
Gianfranco Proietti vorrebbe per sé e per gli altri tutte le voluttà della terra, fuse in una sola, il bacio, e precipitate sulla bocca di tutti gli individui.
L’appagamento sarebbe una folgorazione, ma a un tempo un ricolmarsi di tutto, una totalità sommersa, finalmente pacificata (“Se/c’è un uomo/che ha chiuso/tutte le porte,/se c’è/un uomo/così solo,/dev’esserci/una donna,/una donna che lo baci/un milione/un milione di volte”).
Baciare e ribaciare diviene un’esperienza estatica, senza limiti: paradossalmente si produce un troppo che non è mai troppo, perché spezza i vincoli frustranti della realtà e si immilla nell’immaginario, superiore a qualsiasi godimento intravisto dal desiderio: il bacio appare come un miracolo, in quanto non sazia in nessuna circostanza, anzi oltrepassando la sazietà medesima, non si imbatte mai nella nausea e nella ripetizione, dioscuri di un reale annichilente e vuoto.
Quando il mondo ispessisce e la fitta trama delle sue contraddizioni soffoca e opprime, la sola voce che non si lascia accerchiare rimane quella poetica, risata di scherno sull’esistenza e sulla confusione attuale delle coscienze: è nel medesimo tempo l’ultima eco, ancora udibile, della rescissione di tutti i rapporti umani definiti in virtù dell’esclusivo scambio economico e delle rendite di posizione (leggi status sociale e feticci annessi).
La coscienza di Gianfranco Proietti, poiché autocoscienza ribelle, si solleva al di sopra di se stessa per esprimere le sue connotazioni con spirito salace, sagace (“Ricchi affascinanti desiderati;/perché tanto è un film,/una sceneggiata sballata di un sogno./Adesso che sono sveglio,/in verità, in verità vi dico:/mandate tutti a farsi sfottere,/baciatevi, baciatevi, stolti!”).
La coscienza onesta scruta ogni istante del vissuto, ogni entità permanente, le frivole spensieratezze che rappresentano il rovescio di una vigile e inconcussa ragione: il contenuto del dettato poetico si configura quale ribaltamento dei concetti dominanti, dell’universale inganno del pensiero unico, della spudoratezza di spacciare per la più grande verità conformismo e arida massificazione.
Se, per dirla con Diderot, i testi qui sottoposti al vaglio ermeneutico sembrano un ciarlare di saggezza e follia, ben vengano, essendoci chiara necessità di tornare a trascrivere onestamente i sentimenti, di rimettere in circolazione la melodia del bene e del vero (“Specchio d’acqua/è quest’anima;/fa cadere/goccia a goccia/la pioggia del tuo viso./Ti ravviso nel ticchettio dei baci”).
Se il linguaggio comune (tecnicistico, pubblicitario, cantilenante, tautologico) non esprime quasi più nulla di concreto, se le parole mandano suoni cupi, indistinti, al limite del gutturale (basta ascoltare i gerghi metropolitani giovanilistici), allora bisogna mandare tutto questo ciarpame in pezzi, restituendo il senso proprio alla comunicazione, ripulendola dall’usura continua, permettendo alle frasi di riappropriarsi della loro antica freschezza.
Parole con il bacio brandisce e fa roteare in alto l’acume dell’intelletto contro lo spaventoso sciupìo di energie razionali e emotive, per questo non si effonde in verbosità prolisse e inconsistenti, né punta a dispute sclerotizzanti, ma si incaparbisce a rappresentare fatti, azioni, persone vive, senza mai perdersi nella mera contemplazione e nelle compiacenze formali.
Gianfranco Proietti sa forzare la lingua letteraria per darle un carattere di immediatezza fisica; volentieri proclama una sua febbre di vita, affastella un’intera gamma di toni per dimostrare che in un bacio sano vi è contenuta una sana intelligenza di sé e delle persone amate (“I ragazzi/che/hanno assaporato/un bacio/prima/degli altri/è da/un milione di anni/che non giocano/con la cerbottana,/che non si scorticano/le gambe/rincorrendo un pallone/e non vanno/nelle/sale parrocchiali/a vedere/film/d’indiani e cow boy;/stanno sulle panchine/sui muretti,/dietro gli anfratti/a baciarsi, beati”).
Non solo canto generale sull’amore, Parole con il bacio associa i tratti godibilissimi del commerslied (canto goliardico), iniettando i suoi epigrammi arguti, mordaci, pungenti nei nostri tempi catatonici; a mano a mano che si impara a prendere le distanze da questo nido del malaugurio (la nostra società), dalle sordidezze del presente, veramente si apprezza quanto Gianfranco Proietti abbia tentato di fare con la poesia: mostrare che è ancora possibile riuscire a ricostruire nell’immaginario un mondo almeno sopportabile.
Donato Di Stasi