La scelta quieta (e disperata) di Oronzo Liuzzi, di tracciare una rarefazione (ma non la discontinuità testuale dei suoi “pensieri in_transito”) intensifica un’idea di paesaggio di parole su superficie deserta. In essa si leggono assimilazioni mentali segrete, stupori sacrificali dominati dal senso del simbolo, conflitti secretivi, riscoperte di vuoto, prospettive post-consumistiche, rivisitazioni di prosa-poetica, scricchiolii filosofici, fasi mai impervie di fratturazione come disfatta del caduco, riattualizzazione dell’evanescenza e dell’estrema, intima ratio, che esemplifica la medesima futuribilità di noi, dei discorsi a formulazione utopica e sostanzialmente quotidiana. C’è quindi - in questa silloge di corrispondenze non usurate o monche - uno stato di cose che evita la immanente scomparsa delle parole e insieme il senso della perdita e del fascino che esse hanno ispirato alla persona umana dal primordiale fino adesso.
La stessa memoria rende omaggio alla scrittura riflessiva, che non sviluppa il bisogno di conoscere aforistico e si allontana per brevità linearizzate, quasi perdute e sofferenti, tagliate ad hoc per la rappresentazione itinerale e tramutate in incompiutezze allarmanti, reticenze, nostalgie del passato e forse il ritratto di ciò che resta del nostro parlato o scritto fortuito nella metafora della futuribilità antropologica, ridotta al balbettio. Oronzo Liuzzi sopravvive a questo trauma ordinario accettando i rischi, senza estraniarsi, anzi colto dalla piena (e grafica) coscienza di leggere il mondo, rifondendo i valori espressivi e la patologia che comunque informano di ciò che resta dei reali “nutrimenti terrestri” e delle fatiche di qualsiasi poligrafico scriba, che qui sembra langua. Nel viaggio pubblicistico i frammenti di pensiero sono trentuno, ma con questo documento (distante dalla visualità poetica, e al di là della perfezione rigorosa della tradizione ritmica, fino alla strenua e regolarissima iconografia del sonetto, per esempio, dell’ode, del madrigale, dell’inno e del salmo) egli instaura una smagliata tessitura, senza dubbio ricomponibile in significato e senso semiotico. E traccia itinerari deragliati di soluzione metafisica, istanze, in apparenza algide e dinoccolate, di rapidità esecutiva, spostata, sebbene riportata ai suoi valori di senso e di discrezione riflessiva, più come imprescindibilità che come cesura al dettato standard delle scritture abituali.
So che può essere un allarme esecutivo, che la cattura può diventare apocalittica e traumatica, ma non accessoria alla reale sopravvivenza dell’essere, dell’equilibrio didattico e dottrinale nel recupero esistente, leggero, e spettro di una denuncia oggettivae già linea di forza dell’essere. Così, in sequenze meditative, Liuzzi si riappropria assiduamente di un’informazione corrosa, non cerimoniale, che sembra in tutto voler rispecchiare l’èra atomica (in ogni caso minacciosamente riproposta dalle foghe letali della perdizione disincantata di un possibile e sfilacciato amore dell’Altro) diventando ipotesi di una realtà esplosiva e, in ogni caso, negatività insolente e acre. Ecco il 22: pensiero in_transito: “curiosi. e incuriositi esploriamo la festa innaturale dei sogni incolti….documentiamo l_annikilimento del respiro. e la reputazione della skizofrenia…buffi….lo spekkio dell_anima circola solo nel paese delle meraviglie. mitica immagine. e sfogo la fantasia con la classica performance…..sono cresciuto con lo spettacolo. e nello spettacolo. e nella stupidità del dolcetto o skerzetto….la maskera….mi nasconde. e ci nasconde. e persi. e disorientati”.
Nel cui movimento linguistico la radice sperimentale è vincolata da un gioco a psicologia cèliniana, e/o interrogativa amleticità, quasi tentato di assecondare la sua “scelta” ad una sfida coraggiosa e innovativa, in tutto simile a quella che Giovanna D’Arco con azzardo (e con successo) ha espresso in un proprio slogan (etico-politico) dicendo: “Io saprò dare l’anima all’impresa”. Nell’esattezza indiziaria Oronzo Liuzzi riavvia un’ideale progettazione narrativa, indubbiamente lontana dalla fiaba o prodigiosamente lieve, ma per la protesta, il disincanto assai dentro alla chiarezza: in effetti patita, sensibilmente scarna e inevitabile. Così, nelle sue parabole microtestuali, direi sincopate, percussive, egli sottrae la storia e la stessa cronaca che le avvolge, una semi-prossimità a completezza organica e programmatica, con cui dota i punti di contatto del limite e della forma. Questi, applicati all’altezza di una confessione non ibrida intrisa di smagliature, di sparsi echi di denuncia e dipronuncia, dove il senso, tuttavia governa il destino della riflessione e la reazione dell’esperienza “pensata”.
E qui, tappa dopo tappa, preziosamente e sperimentalmente attuata, grazie anche agli stimolanti ausili di una ricerca che dura da tempo, proprio mentre, nella medesima direzione, tanti sviluppi si sono arenati, e ormai non più comunicativamente praticabili o con ambizioni davvero cruciali.
La scoria, che non offre al frammento nessun genere di artefatto haiku o di mobilità microfisica, scommette una logocentrica manifestazione oltre il labirinto, alimentata da occasioni, tensioni, acquisizioni di leggibilità, attraverso l’illazione e l’intento del salto, interni all’essere un’identità non sospetta o costretta da momenti magici, riprodotta in essenza per l’occasione. C’è una performativa cadenza laboratoriale che ne caratterizza la sintesi (e la materia) oltre ogni mistero, e nel clima quieto di una libera scena di evidenze, a connessioni private, limpide e imparziali, ma attraverso un suo diretto, metamorfico esilio di fluente opera che, in ogni caso, si rincorre nell’imperativo del franto ritmo, nell’architettura informale, e nello stile di un’insistita immagine a epigrafe disfatta.
Domenico Cara