Nella poesia di Michele Ferrara degli Uberti si incontrano spesso immagini sospese in un'atmosfera surreale che riportano alla mente le tele di Chagall, penso soprattutto al violinista che suona in bilico su un tetto, un piede appoggiato sulla canna fumaria e l'altro sospeso nel vuoto. Surreali di frequente anche le similitudini (come "era una radice stellata il tuo canto") che richiamano certi procedimenti linguistici della poesia di Amelia Rosselli. Spesso il senso slitta da verso a verso fino a condensarsi fulmineamente in un verso oppure in una parola, versi e parole impregnati di un sentire infuocato, di un'emozione totalizzante che coinvolge intensamente il lettore.
Lo spessore di questa poesia sta soprattutto sul piano verbale, un piano inclinato che sbilancia la sintassi spezza le concordanze. Una sorta di segnale di pericolo che assume la valenza di un SOS lanciato al vento. Non c'è attesa d'aiuto per la consapevolezza che non esiste salvezza fuori dalla "torre", luogo simbolico metaforico e archetipico insieme di forza intcriore, di orientamento spirituale. Che si può perdere se un assedio preme o una estraneità frastorna:
"... il mio futuro mi sembrava chiuso in una torre
non più assediata, ma estranea.
Io apparivo con gemme di ramoscelli tra le mani
memore di cercare qualcosa
un odore o la sua vanescenza. "
C'è memoria, c'è esperienza intcriore sedimentata nei versi di questo giovane autore, come se avesse vissuto il doppio dei suoi anni, come se ogni emozione ogni pensiero si dilatassero in echi generativi di altre emozioni altri pensieri. Travaglio e intensità della vita inferiore sfociati in una maturità precoce del pensiero. Quasi una sapienza della vita, del suo dolore:
"Occhi che videro i confini d'un mondo astuto la sua violenza
capace di distruggere le distanze del cortile le menti rasate obbligate all'obbedienza. "
Sapienza per la quale una poesia incentrata sull'io si oggettiva in rimandi al noi. Rimandi espliciti come
"Fummo oltre la tenera promessa delle sponde
avvinti a un chiaro gioco di luce di destrezza
a quel sommo chiarore che commosse la sorte
la consapevolezza d'esser vivi"
ma soprattutto impliciti perché l'io di cui si dice non è raggomitolato su se stesso, non è rivolto soltanto a un tu interno ma è in rapporto con un tu altro da sé, si pone su un territorio aperto alle epifanie del collettivo. (Anche in questo si ravvisa una modalità della poesia di Amelia Rosselli, ma una ricca gamma di echi risuona nei versi di Michele Ferrara, e tra questi, ben riconoscibile, Campana.)
E che l'immaginazione visionaria e surrealistica di Michele, capace di vedere "rive di diamante nascoste nella luce", parte sempre da un dato sofferto dell'esperienza che lo conduce alla consapevolezza del dolore universale. C'è per tutti una promessa disattesa dalla vita: qualcosa, come "la leggerezza d'uno stormo", rimasta lontana, inaccessìbile, perduta "sulla terra riarsa addormentata". E non è dato capire perché, né il perché di tanto dolore.
E allora non resta che
"Dormire tra i leoni le bestie
forestiere del parco
dormire nella foresta del mio letto incendiato
in un'agape di croci
dormire e dimenticare la ferita di ferro..."
ma non si tratta di rassegnazione, piuttosto di testimonianza amara della durezza esistenziale, della solitudine di chi abita "le isole abituate al pianto." Un soliloquio che è ricerca e attesa di colloquio. Soltanto in rapporto a qualcuno Michele Ferrara sente di stare dentro la vita:
"Liberi la mia vita
la rendi un cosmo pieno di cose
in perpetua festa... "
Altrimenti "il mondo si chiude e non rivela/ altro che le sue ombre, " ombre allucinatorie di "angioli dispettosi", "ombre/ serrate in una tenebra difforme", ombre "malcerte tra i gufi della notte" apportatrici di angosce, di pensieri di morte mentre "la sete aspra ti piglia il ventre/ corrode il tuo giaciglio di spine." Ma un imperativo insorge dal profondo:
"Togli il destino ottuso dalle palpebre".
Anche se
"...la torre è sconfitta
il presidente assediato.
L'albero è spezzato
la gioia rinchiusa in tribunali..."
permane una strenua volontà di resistenza vitale:
"... Poni come tuo ultimo baluardo/ la speranza."
Speranza che corre parallela a un sentimento inconsolabile di perdita, speranza nell'ascolto, quindi "nel cielo della carta", nella parola come tramite tra il sé e il mondo.
"Non disperarti
non aspettare che la mano diventi sasso e la lingua
una pietra che riscuote inganni."
E anche se la parola può illuderci mettendosi al posto della vita, darci solo "immagini di un mondo/ tenuto lontano dal becco di un cigno", è un fondale su cui ancorare la "torre di manifesto ardore".
Sara Zanghì