L’avanguardia,
si potrebbe dire, o è permanente o non è. L’avanguardia non è uno stato di cose
che debba essere instaurato, bensì un movimento reale che abolisce lo stato di
cose presente. Si è tentati di ricorrere a formule generose, che forse qualcuno
ancora ricorda, leggendo il saggio La scrittura tra realismo e allegoria
(2005: da qui le citazioni, se non diversamente indicato) che conclude il
volume Superrealisticallegoricamente di Nadia Cavalera: né sembri
noncuranza del testo di poesia avviare questa riflessione citando il
testo di poetica, dato il legame qui strettissimo tra esperienza di
vita, speculazione metapoetica e pratica di poesia. Dunque, «Impegno pieno per
un’Avanguardia da riattualizzare, al di là di stereotipate concezioni,
portatrice di un progetto culturale diverso, opposto, antagonista, aliena da
ogni compromesso con logiche di potere». Un pensiero, come si vede, forte,
fortissimo, irriconciliato; un’idea della verità perentoria per quanto non
dogmatica - «(: nessuna verità rivelata: solo una credenza soggettiva
conclamata»: Io sono Io - e, soprattutto, una «scrittura solitaria
scritta schietta contro chi pote pagante pagato…» (Scrittura). La
creatività è di per sé rivoluzionaria, il suo linguaggio provoca e
destabilizza: «W lo smantellamento dei debiti perversi proterzi W la
vanificazione del brandingaggio selvaggio la riappropriazione di ogni creativo
lignaggio linguaggio zonaline pipeline per un mondo equo sano rondò villaggio»
(W l’economia bonificata). Ogni pacificazione va rifiutata, tanto che a
proposito del precedente Amsirutuf: enimma Nadia Cavalera scrive: «era
il mio no ad una parola fascinosa ma non aderente alla realtà, che la copriva
anzi e mistificava. Ne immobilizzava la crescita». Il linguaggio possiede un
preciso potere performativo («essere prescrittiva / ma anche formativa / e stoica
comparata»: da Sospensioni, 1980) e una qualità immediatamente politica;
la poesia è – dev’essere – il contravveleno alla mistificazione universale e
alla chimera regressiva: «La mia voce un tempo flautata fatata fata di sogni
heidi picchiettata con questo morso in bocca d’un mondo allocco è baccalà fisso
che stocca ogni corso ricorso torsolo senza rimborso ed io muta m’abbiocco come
rotto balocco» (La mia voce). L’impegno poetico nasce dallo stesso luogo
che genera l’impegno etico e civile: «Il nostro non è il migliore dei mondi
possibili ed è questa consapevolezza la causa dell’infelicità (: potevamo
essere più fortunati!)» (Superrealisticallegoricaforismando). Nella voce
di Nadia Cavalera risuona la nota ferma di un neoilluminismo che ha
attraversato Marcuse: il mondo migliore, sognato, «non solo non c’era da
nessuna parte, nemmeno in qualche dimensione parallela […], ma senza
un’Avanguardia ferrata, convinta e compatta, sempre più numerosa, non c’era
neppure la possibilità di realizzarlo. E rimaneva orribile nella sua
ingiustizia, nella illogicità imperante, nell’assurdità stomachevole» (La
scrittura tra realismo e allegoria). La conservazione dei valori minacciati
appare un altissimo compito consegnato anche alla parola poetica: «e basta co’
sta boiata botta nata referendata della Costituzione antiquata quando è vergine
d’usura conclamata: da longtemps in innumeri fleurs decretizio violentata (:
urge il lifting non lo scempio in trapping: il rinnovo novello empio zapping)»
(Supplemento solidale, in parte). La scrittura non può che essere, in
questa prospettiva, profondamente storica, tesa tra commento critico e cura
programmatica: già Amsirutuf: enimma era, scrive l’autrice, «il mio sì
per una parola da reinventare, pescando nel passato […] per trovare le energie
necessarie a fondare il futuro». Tutela del passato e progetto per il futuro
sono coordinate naturali dell’umano, in quanto corrispondono perfettamente alle
due «facoltà principali del cervello: registrare e progettare» (Superrealisticallegoricaforismando).
Neanche l’estetica, questo è certo, può eludere il contesto: «La bellezza è
produzione di scarti – La vera arte è esaltazione degli scarti, del difforme
alla ricerca di una forma, da superare: il resto è, più o meno capace,
imitazione» (Superrealisticallegoricaforismando); il che rimanda all’ostranenie
dei formalisti, ma anche alla contestazione intransigente dell’utilitarismo
capitalistico. E’ conclamato il «Rifiuto del neotradizionalismo e del
postmodernismo in quanto, seppure con motivazioni diverse (l’uno con la sua
fede cieca nel passato, da rilanciare tout court, l’altro con la piena
accettazione del presente) rinunciano alla militanza culturale fortemente
critica ed oppositiva, l’unica possibile oggi per chi non voglia essere
compreso nel progetto economico politico del neocapitalismo globalizzante».
L’orizzonte
ideologico ed estetico di questa esperienza poetica è, anche esplicitamente,
benjaminiano: bisogna ricordare - la stessa Cavalera ci esorta - il trionfo
dell’allegoria che espone la lacerazione insanabile, la perdita di senso, il
decadimento dell’umano e della storia, ma bisogna anche ripensare l’allegoria
come dialettica eccentrica tra quanto è raffigurato nell’espressione, le
intenzioni soggettive che l’hanno prodotta e i suoi significati autonomi. E si
pensa ancora a Benjamin incontrando la malinconia che l’ottimismo della volontà
non vince: «ma il mondo per me permane triste» (La scrittura tra realismo e
allegoria).
Simile densità
concettuale sa trovare espressione concentrata nelle forme brevi dell’aforisma
(«Non ci sono ragioni del cuore che il cervello non conosca. […] La scrittura,
quando è autentica, costituisce il superbo scalpello del pensiero»: Superrealisticallegoricaforismando)
e dell’haiku: «Il cambiamento / E’ il fuoco che spinge / Il mio tempo»
(2 Haiku - per Franca Battista). Talvolta il ritmo esatto dell’haiku
slitta in uno straniamento da filastrocca, mai disimpegnata («grullo cocuzzolo
/ corridoio sfruscio / malanimo gruzzolo»: 6 Haiku) ma incline semmai a
certe forme di non-sense (in Salentudine, del 2004, la veste
privilegiata era il limerick). In tutti i casi, però, il non-sense
finisce per essere in realtà un iper-sense che stravolge il contesto,
abbatte le sicurezze convenzionali e consolidate, addita altri sensi e altre
possibilità: è questo, in fondo, il compito «di uno sperimentalismo ad ampio
raggio, non gratuito, ma di tendenza. Uno sperimentalismo che sia momento di
rottura e che, col fine precipuo di rinnovare il rapporto con le cose,
coinvolga e stravolga i generi negli elementi espressivi e contenutistici, usi
tutte le tecniche e i procedimenti possibili». E’ poi mansione della migliore
avanguardia forzare i residui confini tra generi, codici, linguaggi (si veda I
prestanomi: uomini senza; si consideri lo struggente acrostico Adriana,
del 1972; e si tenga presente la definizione di Amsirutuf: enimma come
«libro totale, alla Roland Barthes»), come lo è tentare e ritentare nuove
relazioni tra significante e significato: il conio lessicale per ibridazione,
germinazione e composizione; la riduzione paratattica della sintassi; la
parsimonia interpuntiva; le catene di allitterazioni e paronomasie; le rime
infittite in sequela e così via. In particolare, l’estrema prossimità reciproca
delle figure di suono crea qui un tessuto sovrabbondante e straniante, e
segnala l’accanita manipolazione del linguaggio, volta a indebolire gli
automatismi del pensiero, a svelarli e contestarli (già in Imprespressioni,
del 1970-71:«rincasa la bocca / barca carca / nell’immagine isolata»). Talvola,
come in certi Pensées in libertà vigilata, l’ostentata cadenza ritmica
sconvolge in chiusa l’andamento prosastico e ragionativo: «Ci potrà essere mai
speranza di pace se anche su un tema così grave e impellente come la guerra
trionfano invidie, gelosie, ripicche e i penosi dispettucci di piccoli uomini
mucci?». Notevole anche il nesso di parentesi e due punti, vero stigma
stilistico dell’avanguardia (basti pensare a Edoardo Sanguineti, insieme al
quale Nadia Cavalera anima la rivista «Bollettario») che manifesta tensione
dimostrativa e insieme polifonia interna, per feconda abbondanza di
argomentazione e dimostrazione. All’altro capo quantitativo rispetto dell’haiku
sta il catalogo (Uno per tre, Golphe de Genes), specchio
stilistico di una tendenza – anche questa tutta politica – alla
repertoriazione del reale. Ovunque, in questo volume che raccoglie testi dai
primi anni Settanta al 2005, dilaga il senso di una indignazione che non trova
quiete, tanto meno nella pena: «Siamo nella brace dipinta di cielo ed è tutto
telo nero Lo squalo piazza i complici sulla scacchiera bacata d’un posto unico
plurimo Popolo mio cambia solo la pancia di chi t’ingoierà softamente senza
vederlo a sapere» (Siamo).