Il titolo di questo libro di poesia di Marco Palladini è un
aforisma crudele. E', in fondo, una messa in guardia, magari una
minaccia profferita da uno che non indossa maschere di ferro o di
gomma, ma ama mostrare il suo volto così com'è, meglio:
così come se lo è costruito. La vita non è
elegante:qualcosa che allude al suo orrore, più che alla sua
rozzezza. E difatti, il sottotitolo porta, molto esplicitamente: Satire,
Agoni, Scenari e Agonie, tutto con iniziali maiuscole, quasi con
gusto da cartellone pubblicitario parodizzato, o da capoversi di
capitoli di un'opera che si mette all'Indice motu proprio. Gli esergo
da Rilke, Pasolini e Leopardi parlano chiaro: ma forse il ribaltamento
interrogativo del celebre motto di uno dei Caprichos di Goya da
più di tutto il senso delle intenzioni di Palladini (La
ragione dei mostri genera sonno?).
E' infatti contro la miriade di mostri e di mostruosità in cui
siamo immersi, e che costituiscono la norma aberrante del nostro
vivere, che il satirico e Vagonista Palladini, esibendosi morente di
una morte interminabile - come avviene appunto nel melodramma -,
fìngendosi agònico e agendosi in realtà (anche)
come corpo e voce teatrale, fa guerra aperta, accettando tutte le
brutalità di uno scontro il cui esito è già
scritto sui trattati della volgarità del consumo e del profitto
- davvero come una legge di natura. Ab ovo e ad eternum. Ma ovviamente
la parola e il concetto di SEMPRE riescono particolarmente ripugnanti
all'uomo e al poeta Palladini, che si misura col caos del molteplice in
modi non certo diplomatici, e al contrario conflittuali, radicali e
definitivi. Così, la sua implacabilità letteraria
è tale non solo perché l'oggetto che egli aggredisce
è particolarmente micidiale, ma perché egli sa che
nessuna blandizie lo può placare. A la guerre comme à la
guerre: e Marco non si sottrae, anzi aizza vieppiù la sua franca
inclinazione al rifiuto di ogni medietas. In quel libro di furente
pacatezza che è Dialoghi di profughi, Brecht mette in
bocca al personaggio Ziffel un giudizio lapidario sulle irrisolvibili
aporie della morale capitalistica: "Sono contrario alla pretesa di
mettere ordine in un porcile". Credo che Palladini non sia troppo
lontano da una simile decisione.
Questa, la ragione fondativa del suo libro, tutto sopra le righe, tutto
gridato, tutto esposto. Marco "sbatte il mostro in prima pagina" non
per foia di stupire il lettore o per bassi interessi di bottega, ma
esclusivamente perché non accetta scorciatoie ideologiche
né comodi meticciati tra pulsioni corporali e aliti dello
spirito. Il materialismo di Palladini è integrale, e integro. La
sua testa intelligente funziona al dilà - e magari, contro -
tutti i ricatti del quieto vivere poetico e deìrapaisement
ideologico. Questo è un poeta che non ama la pacificazione per
convenienza, ma lavora dentro la contraddizione permanente, per
convinzione filosofica e per scelta esistenziale non trattabile. Di
qui, senza scampo, un atteggiamento di scrittura assolutamente alieno
da qualsiasi contemplatività, da qualsiasi irenismo, da
qualsiasi gratuito plaisir du texte. Il testo, anzi, è spinto al
massimo, vive di accelerazioni che nella loro efferatezza sembrano
ingovernabili. La lingua non è un paesaggio immobile, non
è una cartolina da gustare all'interno di una nicchia
consolatoria: la lingua è un animale, e quanto più la si
addomestica tanto più perde energia. Marco sa bene tutto questo:
appunto non osserva le eventuali bellezze della sua lingua poetica, ma
ne gestisce senso ed effetti dall'interno del suo prodursi.
Poeta perdutamente metropolitano, egli alimenta la sua scrittura (per
fortuna, inelegante come la vita) di immagini torbide, di fetori da
discarica, di rumori sordi o striduli, di sgangherate entropie, di
sghignazzi, di lazzi, di cazzi, di genuflessioni a pagamento. Il suo
è un teatro soprattutto romano, di una Roma stravolta e venduta,
mascherata e triviale: proprio - iuxta Flaiano - "un bivacco sulle
rovine". La capitale è allora, inevitabilmente, nel libro di
Marco, non la visione incantevole dell'ideologia turistico-affaristica,
ma un fantasma livido di bellezze falsificate, "una suburra dove i
brasiltrans dai superkuli stupendissimi e basculanti / sublimano
turistiche e roventi visioni di supercallipigie sambiste / e scatenate
a Santo Salvatore della Baia d'Ogniss'anti. / Qui il Sant'Uffizio
catto-apostolico romano / produce la pura dialettica dell'oscurantismo
/ e il Pope-model è più che una popstar flashata da
paparazzi doc / è un arcipapa polacchino no-stop, / partorito
nel suo incubo postremo da Papà Ubu". Palladini, come si legge
in "Entropia anno 2000", testo d'incipit del suo libro, può
permettersi di sputare su "Quelli che spropositano di poetare in punta
di sandropenna / stortilabbruti oracoli dell'incommensurabile, /
coll'occhio però scaltro al soldo e alla carriera". Egli, poeta
villoniano e villano (anche nel senso dell'Emilio Villa da poco
mancato, nei cui confronti il debito bieco della cultura italiana
appare non saldabile, e morde a sangue come un rimorso), può
permettersi di attestare: "Con dignità indosso il cappotto delle
battaglie perdute, / uniche decorazioni le medaglie del non-oblio".
Perché, si può aggiungere, agli uomini che sono poeti, e
a tutti gli uomini, spetta il compito di non dimenticare. La memoria
non è un culto, è un dovere.
E' ovvio che, per giocare una giostra di questa artaudiana
crudeltà e di questa spietata cruenza, la quale si lascia
attraversare da una quantità eterogenea di elementi e di
stilemi, ingozzandosi di finte sublimità e di gerghi malandrini,
di lessici ipertecnici e di spropositate oscenità, e trafitta da
neologismi o jeux de mots spesso folgoranti ("dulcis in fungo" -
allucinogeno; "la lingua batte dove l'inconscio duole"; "francamente
non sono democratico / bensì ed immarcescibile un demokritico";
"Sovrattutto siamo ciò che non sappiamo": con allusione
parafrastica al più celebre verso di Montale; "Non mai itali
saremo ed elegiaci e lirici / ma tutt'al più barbari illirici";
condannati all'Infernet, i "fìglioletti della net-generation";
"Perché è la pubblicità l'anima del bluff", ecc.
ecc.); per giocare una partita di questa dura complessità
occorrono una densa cultura trasversale e una lucida consapevolezza
critica, nonché un senso del comico-sarcastico di prim'ordine.
Qui, come voleva Baudelaire, il poeta e il critico convivono, inarcati
nello stesso exploit offensivo. Offensivo e, ripeto, violentemente
comico: sia nel senso del riso di un Rabelais infuriato, sia nel senso
dantesco, di lingua "bassa", di strategia antisublime. E la sfida di
Palladini è, appunto, quella di produrre un riuso criticamente
straniato della macrokoiné della Menzogna Universale,
svuotandone l'ideologia truffaldina, azzerandone la filosofia della
comunicazione che da parola solo a se stessa, sbeffeggiandone le
pretese interclassiste. La tecnica del boomerang, insomma.
Un libro politico, quindi, La vita non è elegante? Un
libro, direi, fatalmente politico: e non soltanto per le tematiche pure
spesso esplicitamente sociali, economiche, politiche che mette in
scena, e dentro il maelstrom delle quali il soggetto poetante,
"dissipato incasinato sempre in bolletta" si aspetta soltanto Atti
Teatrali Innominabili (tanto per non lasciare fuori dalla porta il
grandissimo Beckett); ma per le mosse in cui si esibisce,
disperatamente, narcisisticamente, in rotta di collisione assoluta con
tutte le Tenerezze, le Malinconie e le Ruffianate della meretricolare
Convenzione Ideologica Accreditata, anche in Letteratura. Un libro
scomposto, onnivoro, affamato di riti antagonistici e non di miti
accattivanti ed obliosi; nel quale convivono, come in una gehenna senza
scampo né misura, i coatti delle periferie discaricate del
pianeta, i dannati del cellulare scatenati a far quattrini, i
cacciatori di teste che "finiscono loro per primi decollati", il
magnifico attore-autore-autistico-autentico-autogeno che si chiamava
Victor Cavallo, nato come chi vi parla nel gloriosissimo quartiere
della Garbatella, e per i cui funerali la città non si è
paralizzata fino alle quattro del mattino, Marilyn che non era Marilyn
ma solo Norma Jean Baker Mortenson, e una quantità di campioni
di pugilato, angeli del massacro e della sconfitta: tutta gente
ospitata all'ombra del Fondo Monetario Internazionale e delle guerre
che continuano a continuare...
Quest'orgia di scrittura poetica canaille è uno straordinario
gesto di opposizione, non soltanto perché si dichiara "non in
vendita" anche se occupa brutalmente la scena e la vetrina del
linguaggio. Lo è soprattutto per la radicalità senza
alibi del suo ingaggiarsi smisurato, in tempi di furberie e di tattiche
e pretattiche vili. L'impegno di Marco non suona il piffero a nessun
datore di legittimità, foss'anche il più degno, o il meno
indegno: suona la sua musica aspra, dura, intrattabile, che è
quella di un delirio sano, capace di percezioni che mettono out
ipocrisia e decoro, questi virus immortali della nostra letteratura
scritta, a partire dalla Controriforma, quasi irrimediabilmente nella
lingua dei preti. Egli sa, e lo scrive nella penultima pagina di La
vita non è elegante, questa sì esplicitamente
aforistica - con la memoria e la tensione presente a
Lautréamont, che "i veri poeti non sono mai gli autori dei loro
versi: essi non scrivono, sono scritti, così come io con loro
non parlo, sono parlato..."
Mario Lunetta