Non voglio suscitare amore per il vizio; […].
In questo, oso dirlo, sono più morale di coloro che si
credono liberi di ingentilire il vizio.
De Sade
L’irragionevole efficacia della matematica della natura.
Eugen Wigner
Dove il mondo cessa di essere il palcoscenico delle nostre speranze e
dei nostri desideri per divenire l'oggetto della libera curiosità
e della contemplazione, lì iniziano l'arte e la scienza.
Albert Einstein
“Sono un libertino, io non sono un criminale o un assassino”.
Così – nell’aria di ostracismo, persecuzione e condanna che
circondava l’opera e il suo autore –, Sade: “non ho sicuramente fatto
tutto ciò che ho immaginato, né mai lo farò”.
Anzi, nelle sue Considerazioni sui Romanzi – la riflessione sulla
nascita del romanzo e le dichiarazioni di poetica circa
l’opportunità del rispetto della regola della verosimiglianza
per la scrittura letteraria –, De Sade dice che se “l’essenziale
esigenza dell’arte è di certo quella della conoscenza del cuore
umano”, non è certamente ingentilendo, o ignorando, il vizio e
la depravazione che lo scrittore può assolvere al suo compito
etico. Descriverli, mostrarli nel loro eccesso e nel rischio del
superamento di una certa soglia di equilibrio – oltre la quale la vita
stessa si trasforma in morte e l’eros nella sua negazione o in
crudeltà gratuita e folle –, è invece la maniera
conoscitiva ed etica più efficace. Infatti se “lo sciocco coglie
una rosa e la sfoglia”, è l’uomo di genio che “la odora e la
dipinge” immaginando e coagulando il suo distillato in costrutti
linguistico-letterari semanticamente dirompenti il consueto di una vita
disciplinata e insapore; testimoniando – rispetto a chi crede di essere
libero ingentilendo il vizio o camuffandosi nell’ipocrisia perbenista –
così di essere il solo soggetto veramente morale e critico. Il
solo cioè capace di rompere i veli pietosi e moralistici che
nutrono presunte corrispondenze fra cose e nomi, fra criteri sociali e
azioni e comportamenti singoli. Specie se i vincoli etico-sociali sono
quelli volti a disciplinare e dominare le dinamiche psico-corporee
individuali, socialmente eterodosse e proibite, ma strutturali al bios
e all’eros di ciascuno. I personaggi sadiani – violenti, profanatori,
osceni, blasfemi, torturatori, lussuriosi, esuberanti nella ricerca del
piacere quanto crudamente raffinati nel soddisfare il desiderio e il
piacere della carne immaginariamente configurati –, sollevate le
maschere, mostrano che c’è una ragione e un vedere/esporsi che
non sono più obbligati a ordini e “tabù” dati. E tutt’al
più mostrano che ci può essere una ragione – che è
quella dell’intreccio degli eventi – e la ‘curiosità’ (che
alcuni hanno definito “passione epistemica” disinteressata, e altri –
la morale catechistica della religione dominante – quale peccato
concupiscientia oculorum ) che ne alimenta l’avanzare fra il vuoto
degli assoluti e un rapporto spiazzante con la pienezza e la
contingenza dell’universo vitale dei personaggi stessi. L’opera sadiana
segna così una doppia crisi. La crisi della società
aristocratico-religiosa dell’ancien régime e della sua morale
castrante, perversa e falsamente puritana, e la crisi – dietro le
critiche serrate del pensiero sensista e della ragione illuministica
‘crudele’ (in quanto lucidamente disincantata) – dell’ordine delle cose
come coincidenza con l’ordine delle idee del soggetto. Il cogito
cartesiano, che verifica i rapporti di identità e differenza
mediante la sua coscienza e la sua capacità rappresentativa
oggettiva, viene così detronizzato dalla “bassezza” del corpo.
La vita e la sua corporeità, infatti, non rispondono al modello
depauperato, smaterializzato e astratto della ragione moderna o della
sua presunta universalità conoscitiva ed etica. Il linguaggio –
e non solo quello dell’immaginario letterario e romanzesco – inoltre sa
che i nomi, le cose, i valori, le idee, le azioni e le pratiche
relazionali hanno un rapporto di pura arbitrarietà e
convenzionalità, e che nessuna ‘rappresentazione’ oggettiva
dell’ordine delle cose – sia che vada dalle cose alle idee o viceversa
– può avere un limite e un discrimine assoluto e univoco; esso
è sempre storico, condiviso solo genericamente, generalmente e a
scapito delle singolarità materiali ed eterogenee dei bisogni,
delle motivazioni, delle affezioni e delle aspettative. Nessun
intelletto e volontà generali, ideologia, istituzione, dunque,
è a guardia del vero e del falso, del bene e del male. Nessuna
guida sicura nel conflitto sia esterno che interno dei soggetti
conoscenti e agenti. Nessun modello universale di verità
conoscitive e morali. Ma ciò, tuttavia, non impedisce alla
‘rappresentazione’ di continuare a funzionare per identità e
differenza, se è vero – come dice Sade – che “l’essenziale
esigenza dell’arte è di certo quella della conoscenza del cuore
umano”, e che il suo obiettivo non è certo quello di fare amare
il vizio. Vizi e virtù, reale e immaginario, vita pratica e
rielaborazione letteraria non sono la stessa cosa. Ma come c’è
“l’irragionevole efficacia della matematica della natura”, così
c’è l’incomprensibile efficacia della scrittura letteraria che
può aiutare a rendere comprensibile la vita.
Non è un caso se, emblematicamente, Foucault ha posto, infatti,
l’opera del divino marchese (Sade) nel momento in cui la crisi dell’age
classique (l’episteme che interconnette l’ordine delle cose con la
razionalità dell’ordine delle idee secondo gli schemi della
rappresentazione che ordina per identità e differenze) è
segnata sia dalla presa di consapevolezza della convenzionalità
e arbitrarietà linguistica sia dall’esplodere delle passioni e
dei desideri del corpo che non si sottomettono a nessun paradigma di
razionalità ‘rappresentativa’. Se c’è una trasparenza
rappresentativa, come mostrano le azioni e le passioni dei personaggi
sadiani, è della vis del desiderio e del dispendio della vita
erotica che svuotano il “sum” del cogito e l’etica della purezza, del
peccato e dell’espiazione o le regole limitanti di una morale pur
provvisoria. Paradossalmente, l’opera del marchese De Sade, condannata
come immorale, ha avuto la sua valenza morale nella misura in cui ha
denunciato le ipocrisie della morale e della religione dominante
nonché la castrazione perversa dell’ordine sociale costituito
dietro cui non c’era che vuoto d’essere.
Sulla stessa scia dell’opera sadiana, anche Le grazie brune di Velio
Carratoni, romanzo libertino, e tipico della frammentazione del
racconto novecentesco, ci sembra, eticamente, egualmente paradossale.
Opera libertina, Le grazie brune (Fermenti Editrice, Roma 2003) di
Velio Carratoni, come i personaggi dell’opera di Sade, hanno un’etica
dissonante. Paradossalmente, mentre sembrano affogare nel degrado e
praticare rapporti erotici né convenzionali, né accettati
da una pubblica morale d’ordine – che vive di abitudini legittimate –,
anche qui i personaggi sottopongono a giudizio severo e rifiuto il
perbenismo imperante; altresì pongono, nel contempo, il problema
della dialettica fra libertà, possesso e “proprietà” che,
in ogni modo, e quasi ripetizione della scena servo-padrone hegeliana,
caratterizza il conflitto erotico degli amanti, compreso quello
consumato all’insegna degli incontri plurimi. Questi personaggi si
ribellano a una società che sterilizza i corpi – l’aspetto
perverso della società tecnologica e dello spettacolo odierno
che denuda i corpi, li imbelletta e li plastifica per una estetica
tutta mercantile e comunicativamente povera se non spersonalizzante,
utilitaria e arida, pur sapendo che il mondo della vita e del vissuto
dei singoli non risponde alle sue astrazioni di mercato né a uno
stile di vita costretto nell’omologia consumistica. Al parossismo
dell’iper-estetizzazione soffocante, inodore e delirante, i personaggi
di Le grazie brune invece amano immergersi negli odori e nei fetori.
Alcuni si ritrovano in una vitalità amorosa bisex, mentre, per
esempio, la complessa e sfuggente Giada, rifuggendo dalla solita
normalità, si prefigura per incontri non comuni, e con uomini
che abbiano lasciato alle spalle la solita mascolinità:
I maschi
non hanno più nulla da dire. I maniaci non sono maschi, in
quanto non vogliono possedere, ma provare,
trasmettere, dimostrare. Loro ormai hanno superato la virilità
maschia. Sono essenzialmente diversi. Per questo li preferisco.
Ma ripeto: dove sono?
Se sono sadici? Anche il sadismo può divenire dolcezza. Basta
saperlo dirottare o
impostare (p. 71);
altri stabiliscono contatti
sensoriali ed erotici plurimi senza mediazioni e infingimenti, a volte
assumendo comportamenti apparentemente contraddittori (Lorise per
liberarsi delle pretese del suo compagno, di cui non vuol più
sapere nulla, decide tuttavia di non rinunciare alle prestazioni
sessuali che l’uomo le chiede, magari di tanto in tanto), purché
ne venga salvaguardata la propria libertà d’essere e di agire a
fronte di un sistema che pratica ipocrisia e perbenismo.
Ecco
perché quest’opera di Velio Carratoni ha una sua dimensione
etica nonostante l’erotismo eterodosso dei suoi personaggi e
un’identità differente rispetto ai canoni voluti dalla
società e dalla famiglia tradizionale. È – come quella
dichiarata da De Sade – una morale paradossale.
L’opera di Velio
Carratoni, con l’occhio all’analisi di Foucault, non ha dietro solo
l’analisi della letteratura libertina; lo scrittore, come traspare
dalle pagine di questo romanzo – che procede per frammenti (storie
frammentate e inconcluse) e dettagli –, infatti mette a profitto anche
il portato delle scienze umane critiche come la psicoanalisi freudiana
e il pensiero critico della scuola di Francoforte. E ciò
traspare dove i modelli autoritari delle istituzioni e l’educazione
borghese della doppiezza ipocrita sono oggetto della ribellione dei
personaggi femminili, i quali stigmatizzano il ruolo di madre,
casalinga, moglie o donne, comunque, tenute a mansioni ripetitive o a
prestazioni sessuali abitudinarie per contratto matrimoniale. Monica –
che a volte si presta a incontri sessuali di cui non capisce certa
dinamica cinetica e gestuale – cui già è stato
prefigurato dalla famiglia, e dal padre che la considera una sua
“proprietà”, il suo destino di vita sociale, è una di
queste figure, e come Giada vorrebbe “liberarsi” dei genitori.
Paradossalmente, allora, praticando una scrittura di azioni che sono la
negazione della morale – oscenità, violenze fisiche e verbali,
rifiuto della normalità… –, anche Le grazie brune pongono una
riflessione etica circa il diritto del libertino di vivere l’eros oltre
gli schemi d’ordine, e di esporlo anche allo sguardo altrui, di cui si
teme, soprattutto nella contesa degli amanti, solo la propensione ad
essere privarti della libertà; quella libertà che,
lacerando la determinatezza dei limiti della morale tradizionale,
vorrebbe rapporti aperti al “male” d’essere non schiavizzanti e
respirare aria di anonimato. Così Manio vorrebbe liberarsi di
Giada soffocandola, e prima colpendola furiosamente, per sottrarsi al
suo magnetismo schiavizzante; così Giada e Monica vorrebbero
liberarsi dei genitori e del modello-famiglia – che le hanno riservato
– per usare del sesso non secondo il rito ipocrita dell’abitudine
matrimoniale, ma per conoscere e “penetrare nelle cose, nella
realtà, anche le più proibite e distorte” (p. 171). Quasi
la traccia del piacere della trasgressione dell’interdetto elaborata
dall’analisi di Bataille sull’eros. I genitori credono di darti tutto
ma
ti educano all’ipocrisia, al rispetto di sé, al
raggranellamento del profitto, ad una
religiosità bieca, ad una
strafottenza senza scampo. Li odio per questo. Sento, dentro di me, un
peso che deriva dall’idea di perbenismo. Sento il
desiderio di
infrangere tutto ciò che è perbene (p. 179).
Ma esporsi allo sguardo dell’altro ed esercitare la concupiscientia oculorum, che non è più vissuta nell’ottica del peccato e del male di certo vetero catechismo cattolicizzante, è anche un desiderio e una tensione d’essere più diffuso di quanto si possa credere. Smaniosa e carica di bramosia per gli atti della vestizione, del denudamento o della cura del corpo, la curiosità infatti è potenza del vedere che si appaga nella materialità gioiosa delle pulsioni libidinose che urgono tra sottaciute, ma consapevoli, complicità e atti visivamente/odorosamente vissuti/immaginati o dietro le fessure:
Sono rientrato in casa, prima
del tempo, per spiare Lorise aggirarsi, muoversi nell’appartamento di
fronte al mio.
È a circa trenta metri di distanza. Entrambi
siamo al terzo piano. Spero che qualcuno vada a trovarla. È
solita mostrarsi
in atteggiamenti intimi a finestre aperte. Forse sa
che solitamente la spio (p. 15) ;
o in luoghi aperti et coram:
Quando mi accorgo distrattamente di loro, tento di distinguerli, quasi
per dimostrare alla coppia che, in fondo, mi
piace osservare anche
altri aspetti frammentari di una realtà frantumata e assurda
come la mia presenza in quel luogo, in
cui non mi ha mandato nessuno,
ma solo un desiderio di andar via, di rendermi anonimo e inconsistente
(p. 28).
[…]
Mi trasferisco da loro, dopo che si sono presentati e mi
hanno detto i loro nomi: Stefania e Marco. Mi siedo di
fronte, avendo
un impaccio generico e scontato. Vorrei dire: “ Mi siete piaciuti fin
da quando siete entrati: ho notato
quali sono i vostri tentativi di
espandervi. […]. Parlo con gli occhi. Marco mi risponde egualmente in
silenzio: “Siamo
una coppia affiatata. Non ci disturba essere notati,
ammirati. Soprattutto ci piace colpire e farci desiderare. […]” (p.
29).
[…]
“Vi è capitato di essere ammirati o osservati assieme?”
aggiungo scandendo le parole per dare ad esse un
significato alterato.
Ogni sillaba, l’ho pronunciata per balbettare intenzionalmente, per
dimostrare la mia malsanità
interiore per la quale anche
respirare, muovere le dita o la mano è segno di morbosità
da svelare.
“Circa un anno fa con un nostro amico è capitato in
macchina, i sedili abbassati. Lei in mezzo, noi due maschi ai
lati.
[…]. Se dovessimo rifarlo, lo faremmo solo per farci osservare. E un
po’ per sfidare” (p. 30);
è una scelta di vita e di libertà che non può
certo fermarsi a una visione di superficie o di scontata
banalità, sebbene il protagonista Moresi sembra non voler agire
e piuttosto provocare per poi registrare gli effetti della non-azione.
Sono un libertino, infatti, e non un “guardone”, recita il protagonista
del romanzo, Manio Moresi. Così – nell’inferno “del mondo, nel
rischio di un regno distaccato e misterioso, di cui sappiamo solo che
ci inghiotte e rapisce, senza scopo e ragione…afferrare l’attimo
fuggente” (p. 174) –, Manio/Velio: “Ormai il mio scopo è il non
agire. In uno stato di sospensione, di immobilismo. Il pensiero si fa
sentire obnubilato. Non mi rimane che analizzare disordinatamente me
stesso” (p. 162). Paradosso. Il giornalista Manio persegue un scopo
senza agire; ma, se c’è uno scopo (che non quello di un calcolo
o di un utile), il non agire, allora, non è mancanza di azione,
ma distruzione e negazione di forme certe; è una forma negativa
di azione o eccesso che non tollera il confine, così come le
grandezze negative non sono mancanza di misura, ma misure negative che
eccedono gli intervalli misurabili con metri finiti. I numeri negativi
e immaginari sono lì a indicare che la loro negatività
è una positività diversa, irriducibile all’ordine
classico. E Manio Moresi agisce e reagisce. Agisce come provocatore di
eventi che “subisce” per analizzarsi e sottrarsi agli schemi d’ordine e
al possesso tipici delle vecchie relazioni amorose proprie di una
società perbenista e malata di doppiezza morale; per attivare
meccanismi sensoriali ed emozionali onde sentire ancora il vigore
vitale, sebbene per frammentazione e disordine, dietro il vuoto dei
formalismi di un mondo “senza ragione” o le gabbie delle istituzioni
sociali in crisi, malate di oppressione, castrazione,
complicità: la famiglia, la chiesa, la giustizia, certo
sindacalismo scioperaiolo connivente con i padroni e la logica del
profitto, ecc.
Il dis-ordine dell’analisi descrittiva, nel caso de Le
grazie brune, è però la fonte dell’ordine del racconto
che procede per episodi, frammenti e dettagli svelanti ora un
personaggio (Lorise) ora un altro (Monica, Stefania, ecc.), ma tutti,
ci pare, sfaccettature di un unico soggetto tematico: le ragioni del
corpo, i suoi umori e l’occhio come canale privilegiato del vedere, del
vedersi e del farsi vedere; una reciproca e complice visibilità
più o meno esplicitamente dichiarata, e la ‘curiosità’
come passione e azione conoscitiva. ‘Curiosità’ è
termine-categoria molto ricorrente nelle pagine di Le grazie brune: “mi
trovo con Giada, curiosa di guardare ogni novità o offerta. La
sua passeggiata preferita consiste nell’ammirare, desiderare,
acquistare, per poi rimanere senza niente” (p. 42); “le confidenze di
Rossana non finiscono mai. È apparentemente sincera e
comunicativa, in quanto sa di avere a che fare con un curioso e innocuo
maniaco? ” (p. 93). Esporsi al desiderio della vista come filtro di
penetrazione e conoscenza è movente comune, infatti, sia al
libertino Manio che ai personaggi che con lui animano la scena, la
lingua e l’analisi letteraria del testo di Le grazie brune.
Ora, per
quanto astratta e artificiale possa essere la narrazione del libertino
– che sa dell’assurdo e, a volte, si lascia a qualche colpo d’ala con i
pensieri di qualche filosofo –, l’analisi e l’organizzazione dei
particolari hanno tuttavia ambienti di riferimento noti e familiari.
L’analisi, tra stilemi letterariamente ricercati e uso di altri
enunciati più d’uso corrente, ma non per questo im-pertinenti e
meno penetranti o significanti, procede infatti sullo sfondo di una
cornice spaziale limitata (una certa Roma), ma modulante uno stile di
vita che sembra senza tempo e storia. Sembra! La storia è invece
lì – incardinata con il suo modello di correlazione culturale di
identità e differenza che si snoda e denuda nelle movenze, nei
vestiti, nei gesti, nei riti, negli atteggiamenti e nei comportamenti,
che sanno di sapori e di odori di “scrofe” senza riserve –,
nell’esistenza concreta dei personaggi del racconto; nei soggetti che
lo scrittore Carratoni ha simulato e letterariamente presentato senza
malizia e con il disincanto di chi – dopo Sade e lo smascheramento
delle coperture ideologiche operato dalle scienze umane critiche – vede
ancora una società che addita, discrimina e “perseguita”
pubblicamente le “diversità”; lì dove, già in
interiore hominis e nei luoghi appartati o allusi delle case, della
città o della stessa comunicazione, casualmente fatta scattare
per gesti e sottintesi, soggettività libere e critiche
frequentano immaginari altri. Sono i soggetti che vivono la
temporalità materiale propria e la logica della sensazione con
il senso (vissuto) della sfida alle convenzioni devitalizzate della
modernità tuttora frenata da un costume gesuitico quanto
punteggiata da zone oscure; i buchi neri che avvolgono la conoscenza
del corpo e della sua carnalità, nonostante l’avvento
dell’età della ragione avesse promesso trasparenza, certezze e
liberazione. La modernità del disincanto e della
razionalità calcolistica e dispiegata, invece, non manca di zone
d’ombre relativamente al pre-razionale rappresentato dal corpo, dalla
sessualità e dall’inconscio. Sono i buchi neri che nessun
modello o intrigo razionalizzante può portare a soluzione
trasparente definitiva. Per dirla con Bataille, il ‘sacer’ dell’eros
non è disciplinabile, e per quanto le ragioni di un modello
possono diventare censura, dominio e controllo, quelle del corpo e del
desiderio (direbbe Spinoza) sono più forti, e mettono in crisi i
nessi tra nomi, cose e valori facendo vedere di “che lacrime e sangue”
grondi qualsiasi razionalismo, essenzialismo metafisico o naturalismo
che volesse riquadrare il sapere o l’ etica.
Secondo Foucault, i
personaggi del marchese De Sade avevano già messo in crisi la
corrispondenza tra l’ordine delle parole, delle cose e delle idee che
la filosofia moderna aveva messo a punto partendo dalla capacità
di rappresentazione del soggetto e del cogito. Ma l’opera letteraria di
De Sade era forse più l’annuncio di un’intelligenza
anticipatrice, e non conformista, che uno schema comune di pensiero e
di azione. Velio Carratoni e i personaggi di Le Grazie Brune, invece,
vivono la demistificazione sadiana in un contesto in cui la trasparenza
dissacratoria della sessualità e della sua esposizione allo
sguardo di tutti è un fatto diffuso e valore di scambio sia
simbolico che mediatore d’altre “merci”. La “nudità” dell’eros
non è più attenzionata solo come peccato e male, anzi. E
non è più un annuncio, ma una pratica del quotidiano
sebbene la doppiezza della morale privata e pubblica ne osteggi ancora
la realtà diffusa e la pressione. L’alterità d’essere
“sadiana” è, dunque, oramai ampiamente diffusa nel tessuto del
quotidiano dei personaggi/soggetti che animano la “diversità”
raccontata ne Le Grazie Brune di Velio Carratoni. La vis del desiderio
e del piacere dis-forme non è più momentaneo smarrimento
di identità chiuse, ma strutturale dis-seminata richiesta di
varietà di rapporti; e modalità di godimento d’esser-ci
in transito plurirelazionale di contatti e fughe insolite quanto
inafferrabili; non è il caos della violenza dei desideri
scatenati, che azzera la capacità rappresentativa e d’ordine dei
protagonisti, quanto – ci sembra – un’identità plurale vs
l’identità monolitica, fondamendalistica ed escludente di certa
modernità dommatica e mistificante ancora agente. E l’istante e
la sua precarietà, in questa processualità esistenziale,
è “occasione” propizia di vita liberamente decisa, realizzata,
appagante e coagulatesi in pensiero ad alta voce, come capita spesso di
sentire in bocca alle figure femminili. Ma i pensieri sono anche
estrapolati, importati/esportati e, dal nostro autore, trasportati
in/da altri testi (il sorriso funesto – aforismi, p. 15) come:
Più vengo sbattuta, palpata, annusata, imbrattata, più il
mio spirito si nutre di nettari decomposti, ma vivi. Fin
quando
già sento la capitolazione in agguato. E allora mi
sentirò spossata ma ricca di sensazioni immagazzinate.
La diversità non è più, dunque, una promessa che si annuncia a-venire, e di pochi. L’annuncio non è più tale: si è stabilizzato voce in stato di cose. La crisi d’ordine non vive nell’anticipo di un fuori tempo, ma nella prassi di tante Justine e Juliette senza più confronti con Lucia/-e di manzoniana memoria, mentre si espongono ai “contatti” di tanti altri voyeur non “guardoni”. Le Lorise, le Moniche e le Giade – che la “violenza” del desiderio dis-piega in una rappresentazione traspa-rente e impeccabile di attimi fuggenti e relazioni multiple in piena e diffusa coscienza consapevole di fronte allo sguardo anatomico del giornalista libertino – non sono più, infatti, un’eccezione. Il loro punto d’approdo non è più il mondo di Lucia “promessa sposa”, ma l’autenticità del sentire e del libero decidere di se stessi contro un mondo d’ordine che vuole la sessualità, soprattutto femminile, siliconata, oggetto, proprietà, merce, prestigio di conquista da spendere sulla scena del mercato e dello spettacolo strutturati di perbenismo e conformismo. E questa è una riflessione che investe l’alterità dell’Altro, e non solo l’io, la cui identità è sempre in gioco. Spinozianamente, potremmo dire che la letizia e la tristezza, che sono egualmente affetti del corpo e della mente, sono passioni che coinvolgono entrambe le parti. E per questo, quella coscienza della vis “dissacrante” del desiderio e del piacere, così consapevole e diffusa, è anche etica oltre che critica. A-normale e patologico risulta, invece, l’ordine castrante delle idee razional-borghesi che si è calato in comportamenti istituzionalizzati quanto ripetitivi e passivizzanti:
L’amore, i rapporti umani, le relazioni dall’amicizia al fidanzamento,
tendono alla legalizzazione societaria che
altro non è se non
massificazione, conformismo, stupidità: famiglia, rapporti con
il vicinato, relazioni sociali, parentela,
amore coniugale, rispetto
umano, convenienza. (pp. 213-214).
La “fisica” dell’eros è spiazzante e desituante, e la visione del libertino ha un’etica che del vedere, del particolare e della trasgressione fanno una passione e una tensione di compenetrazione e composizione conoscitiva:
L’amore è anche violenza. Significa infrangere, manomettere,
dissacrare. Se ciò non fosse non vi sarebbe
partecipazione. Da
prima prevale un subire. Ci si sente conquistati da una forza
irresistibile che più è violenta, più ci fa
vivere. Se non si paga lo scotto della brutalizzazione iniziale ci si
sente vuoti e insicuri. L’ho provato direttamente. Non
credo esista il
male. Esiste ciò che ci si sente di fare (pp. 162-163).
[…]
“ Mi piacerebbe che il ragazzo mi dicesse parole sconce, mentre stiamo
assieme, per fare lo stesso con lui. Evito
di farlo io, per non
turbarlo. Forse anche a lui piacciono, ma non so come potrebbe reagire
a sentirle” (p.197).
Di fronte all’occhio altro, ma anche alle mani e agli odori e ai sapori
di Manio, la voce narrante di Le Grazie Brune, c’è allora anche
una certa eticità che scorre per le vie della conoscenza erotica
“eterodossa”. La posizione di spettatore contemplativo – quasi
osservatore distaccato dalla scena dove si consuma anche la sua
partecipazione di attore che “non agisce”, e che Manio riconosce a se
stesso – non depriva però i personaggi dall’assumere decisioni
in libertà di scelta e autonomia d’intelligenza. Del resto pare
che la stessa assunzione di “ stato di sospensione” di Maio sia un atto
di epoché, e in quanto tale un atto volontario, pur se decisione
paradossale, di agire “non agendo”. Sono uno spettatore, un
“contemplatore” dell’azione. Anzi, durante il tragitto narrativo – che
di frammento in frammento va tuttavia delineandosi come un racconto
unitario – lo sceneggiatore dice: non agisco. Le azioni e le decisioni
appartengono, infatti, alla Grazie Brune – Giada, Lorise, Monica, ecc.
– che non si riconoscono nel perbenismo e nel conformismo della
società borghese omogeneizzante, e non gratificante. A questo
status, le Grazie brune si ribellano e si sottraggono.
L’azione
unificante è tutta incentrata – sembra, così –
sull’antagonismo che confligge con la negazione delle ragioni della
“spirituale” corporeità, l’energia che urge nei pressi
dell’estetica trasgressiva e liberante, e non certamente perché
esibita come “pubblico” spettacolo di consumo calcolato. Ed è
qui la sostanza etica del racconto di queste storie “frammentate”,
nella trasgressione che prima di tutto è rifiuto della
omogeneizzazione, e posizione di sé come libertà che
decide; scelta e azione di un percorso d’identità “singolare”
fuori dagli schemi dell’obbligo della gerarchia d’ordine che, tuttavia,
ne motiva e ne anima la differenza. Come dire che fuori dal contesto e
dall’intreccio delle relazioni non c’è evento né
scrittura che ponga e avanzi il fare. Ma l’istanza unitaria ed etica
del romanzo di Manio/Velio è anche nella tensione veritativa e
di senso che sommuove l’intreccio delle azioni e delle riflessioni
narrative.
Manio, giornalista, è coinvolto in inchieste e (indirettamente,
anche) in considerazioni che si fanno anche giudizio di valore
(lì dove emerge la denuncia del compromesso, il patteggiamento o
la scappatoia del quieto vivere, la mercificazione o il rifiuto di
essere puri oggetti di scambio, transito di rapporti di potere,
“normalità senza sbocco”, scioperanti senza l’anima dello
sciopero). È anche un protagonista non-agente che è
attraversato da sensazioni “intellettive”, conoscitive ed estetiche che
lasciano presupporre un retroterra di specifico significato est-etico e
riconoscibili radici analitico-culturali anticonformiste. Tra
descrizioni analitiche, salti nell’immaginario estetico wagneriano e
domanda di conoscenza differenziante “apparenza” e “realtà” , a
suo modo, infatti, presenta e rappresenta la ricerca di sbocchi
possibili verso una potenza “identitaria” di verità possibile;
una ricerca che si avvale sia del patrimonio demistificante (comunque)
acquisito con Freud che con gli studi e le analisi sulle società
e le famiglie autoritarie del pensiero critico della Scuola di
Francoforte. È la conoscenza che nei personaggi, “dissacranti” e
al tempo stesso ancora capaci di far funzionare, letterariamente, la
categoria della rappresentazione conoscitiva, si fa coscienza e
consapevolezza sia “teoretica” che “pratica”; che, dissonante, si
tramuta in libertà d’azione e vita pur esposta, al tempo stesso,
a certi meccanismi pulsionali e comportamentali sedimentati che nessun
razionalismo pianificato e intellettualismo “liberante” scalfisce o
mette in cantina. L’illuminismo dell’intelletto e della ragione qui
trova il suo limite invalicabile, e la verità di un’altra
dimensione della vita degli uomini rispetto a quelle dell’intelletto
illuministico e moderno.
E la ricerca della verità, di una verità esorbitante i
confini degli schemi culturali elaborati dal pensiero razionalizzante e
oppositivo (vedere le “battute” sulla finitezza e l’assoluto in Hegel e
Dio e Satana in Baudelaire, p. 165), è l’altro punto – ci sembra
– inequivocabile che qualifica la sostanza etica eterodossa di questo
romanzo “frammentato” di Velio Carratoni; nonostante, appunto,
l’andamento “frammentario” delle storie raccontate, c’è una
tensione e un ricerca della verità, di una verità, che
comunque si qualifica come volontà di “decifrazione” nel
rapporto delle cose i segni, le tracce, i discorsi critici e forme di
vita che mentre pongono il limite e la legge ne pongono anche
l’infondatezza. Il frammento non esclude la ricerca di una
verità. Il voyer-contemplatore – poco importano certe
dichiarazioni del personaggio di sfaceli interiori, disordine e
anonimato, ecc. – è infatti sempre in agguato per “decifrare” la
realtà sotto le “apparenze”:
mi piace osservare anche altri
aspetti frammentati di una realtà frantumata ed assurda come la
mia presenza in
quel luogo in cui non mi ha mandato nessuno, ma solo un
desiderio di andar via, di rendermi anonimo ed inconsistente (p. 28);
[…]
Ti fisso, ma non ti guardo. Osservo il vuoto che mi so spinge su
alture prive di basamento; […]. Sotto di me,
come sopra di me,
c’è una massa aeriforme che mi filtra gas manierati […]. Vorrei
schiacciarti, prenderti a calci. […].
“La salvezza è nella
dissacrazione” ( p. 66);
“L’apparenza inganna. L’apparenza deve rispecchiare quello che sei.
Quindi ti dico chiaramente, o fai come me
l’uomo, o lascio perdere” (p.
125) ;
[…]
Dove vai a finire quando sparisci per alcuni giorni? Cosa
provi per me? O meglio, cosa rappresento per te?, avrei
voluto
chiederle come risposta. […]. Che desidero? Nulla. Eppure avverto una
voglia ineffabile […] in cerca della
decifrazione di una realtà
frantumata.. La fissità penetrante mette in risalto
un’espressione dolce che sa di
comprensione, di consapevolezza (p.
153);
[…]
Dici di avere avuto esperienze. Ma non sai definirle, in modo
nuovo. Risenti un po’ troppo della scuola, della pedagogia, scienza di
moralismo educandesco che percettivamente istruisce con tono ieratico,
al di sopra della realtà. “[…]. Il sesso non è un
problema. […]. Con il sesso, vorrei solo conoscere, penetrare nelle
cose, nella realtà, anche le più proibite e distorte.
[…]. Il sesso dovrebbe favorire la liberazione. Anche quando è
sinonimo di perversione, dovrebbe svolgere una funzione di
completamento e di purificazione. Invece i moralisti e gli stessi
pervertiti, lo bollano e se ne lamentano. Il sesso familiare è
deprimente. Amore in scatola, da manuale d’uso, tranne certe eccezioni
autentiche: quando ci si mette, la casalinga, supera in
bestialità qualsiasi specie di altre categorie di donne. […]. La
vera Monica è quella con le sue conoscenze, i suoi rapporti.
Quella falsa è la ragionatrice, l’affrettata espositrice che si
atteggia a pensatrice. Per questo la preferisco sul tappeto o distesa
per terra a contatto con la polvere, sia pure a svolgere il suo ruolo
di curiosa e fredda ricercatrice […]. “Monica, non vergognarti di me.
In mia presenza, liberati pure dei gas interni, se devi vuotarti
fisicamente, dimmelo, voglio starti vicino” (pp. 171, 172).
La categoria della “rappresentazione”, anche se il luogo è quello della letteratura, alimentata dalla dissacrazione come crisi e taglio che cerca di aprire certi nodi, ci sembra una spia più che eloquente di questa tensione verso una identità e verità altre; un tensione né data né scontata se non mancano posizioni valutate ora ironiche ora sarcastiche; non bisogna dimenticare neanche i dialoghi allegorico-grotteschi, a valenza “estraniante” fra la donna e la scrofa, nel sottolineare questa ricerca della realtà (sotto l’apparenza) cui si dedica il personaggio. Sicuramente, come nota Donato Di Stasi in chiusura d’opera, c’è una natura umana che “grida la sua rabbia, reclama la sua realtà”, se il fantasma di Wagner (presente, ma nascosto, quasi come una guida virgiliana lungo tutto il tragitto della narrazione) vuole essere un richiamo alla vita del fantastico quanto dell’arte e del sentimento dell’individuo che il “totalitarismo tecnocratico […] ha meccanizzato fin le viscere più riposte” ma, fortunatamente, non ha azzerato i fermenti. Così, paradossalmente, dalle “giornate degradate” del giornalista Manio Moresi emerge vivo e forte il grido della vita capace di farsi sentire ancora oltre e contro l’alienazione dell’ordine dell’egemonia mercantile propria della produttività ratio-utilitaristica – che sfrutta il sesso, il corpo e mette in circolo solo individui plastificati, iperestetizzati o banali – in base ad una presunta sostanzialità determinata delle cose cui si dovrebbe sottostare. C’è ancora, invece, nella carnalità dei corpi che interagiscono un fondo non truccato con cui bisogna comunicare; e qui c’è ancora, anche, una ricerca d’identità che sa di patire delle contraddizioni. Ogni comunicazione, che raggira la ratio dell’intangibile finitudine dell’individuo classico, infatti sa che è deflorazione, rimozione del limite ed eccesso vitale nell’attimo della consumazione erotica eterodossa che svuota e nientifica il sapere.
Antonino Contiliano