"Quand'ero ragazzino mi mangiavo
/ un po' di cacio seduto sul muretto. / Le giornate correvano come il
vento / e l'estate era la coda dell'inverno. (Quand'ero vajulitt' me
magnev' / ne poch' casc' ascis' a i muritt. / Le jurnat' curriven' cumma i
vent' / e l'istat' er' la codall'imern)". Questi versi sono tratti da "Creature" (Poesie etniche)
di Renzo Paris (Fermenti, 72 pagine, 8,00 euro).
"Le poesie di 'Creature' in lingua e in dialetto, sono state scritte da chi ha passato l'infanzia in un borgo marsicano. La televisione non è ancora riuscita a trasformare il dialetto celanese in una variante regionale dell'italiano. Alcune di queste poesie sono state composte dapprima in italiano e subito dopo tradotte in dialetto, altre al contrario. Mentre lavoravo mi sono accorto che tra i due testi aleggiava un terzo testo; non scritto, orale appunto, nato dall'accostamento della musica del dialetto con quella della lingua. [...] Alle origini la poesia era orale anche nel mio borgo. Le cose scritte le vedevamo solo a scuola. Perciò veniva odiata. Il verso era stato inventato per evocare; era roba da maghi".
Le poesie di "Creature" ritraggono il mondo perduto del borgo, la giovinezza d'altri tempi, l'Abruzzo nascosto e ostile, la Regione del Centro Italia che sembra Meridione: il barbiere, il mulo, la scoperta del sesso, i ritmi del paese, la campagna.
Altra infanzia quella di Paris, altro mondo. Le tradizioni popolari stanno scomparendo, pochi i dialetti che resistono. Anche l'Abruzzo di oggi è diverso, meno arcaico, anche se il "Parco Nazionale" fa da barriera alla globalizzazione selvaggia.
Quello che ne sanno i più è affidato alle immagini di "Fontamara" di Silone, oppure all'idea del lupo, dell'orso marsicano e della linee; la villeggiatura in montagna.
Cose che si studiano a scuola o si leggono sui dépliant turistici e del WWF.
Ma che c'è da difendere in Abruzzo, da mantenere? Forse proprio l'infanzia perduta nel borgo, l'antidoto alla vita cittadina. Eppure c'era povertà e durezza nella scala dei valori.
Paris vive a Roma da molti anni, ma quella è la sua radice "amara", etnica perché è una ricchezza, sfida morale all'inciviltà contemporanea, ricordo incancellabile. Quella l'origine.
Andrea ha quindici anni e non conosce regole. Dello studio non gliene può fregare di meno. Vive in una borgata romana e trascorre le sue giornate con gli amici. A vederlo sembra già grande, ma la testa no, è quella di un ragazzine che non sa cosa fare della sua vita. Spinge l'acceleratore sulla ribellione, l'insofferenza, prende per assoluta ogni sfida con il destino.
Non so se si crede invincibile o è soltanto rassegnato.
Smetterà di studiare dopo la terza media. Potrebbe chiedere di più a se stesso, gliel'ho detto tante volte, ma forse dalla vita no.
E' difficile insegnare qualcosa a questi ragazzi, perché non c'è fortuna, non c'è memoria o meglio, bisogna tirarla fuori. E' come se la storia per loro non esistesse, come se li avesse abbandonati.
La radice non affonda, le parole non escono, non esce la rivendicazione, il diritto all'esistenza.
Ma è qui che bisogna lavorare, in punta di piedi, un po' in disparte per non calpestare, non creare danni maggiori, acuire il rifiuto.
Mi saluta dal motorino quando mi incontra per strada. Gli auguro tutto il bene possibile.
Anche voi ragazzi con le vostre radici amare potrete arrivare da qualche parte. Trovate forza. Nell'infanzia c'è forza. Quello è il luogo da elaborare, da sfruttare per costruire la propria identità.
"M'alzavo e guardavo / dalla finestra l'acqua che veniva giù / come cristo comanda. Gli occhi, gli / occhi mi si rovesciavano alla luce / e la mente non conosceva le stagioni. (M'arrizzeve e guardeve / dalla finestra l'acqua che veneva a balle / cumma Crist' cummanne. Gli occhie, gli occhie / me se
rvutichevene alla luce / e la mente nen cunesceva le staggiune)". |