Numero speciale della rivista Fermenti dedicato ad Alberto Moravia
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INDICE DELLA RIVISTA n. 203 (1991)
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VELIO CARRATONI «Che barba parla l'avvocato» Avevo diciott'anni quando ho conosciuto Alberto Moravia. Era il 1961, mese di febbraio. Era appena tornato dall'India. Abitava ancora in via dell'Oca. L'attesa è durata circa una settimana. Chiamavo per telefono e ogni volta mi pregava di richiamare, dato che era un po' influenzato. «Ho un fastidioso mal di gola con tosse. Lei è un filologo?» «Ho letto i suoi libri. Ho ascoltato qualche giorno fa una sua conferenza su Tolstoi all'Associazione Italia-URSS. Così vorrei approfondire qualche argomento di persona. A proposito, esiste il testo pubblicato della conversazione?» «No, dato che ho improvvisato. Hanno registrato. Provi a chiedere all'Associazione». Moravia mi dà appuntamento per un pomeriggio alle sedici. Arrivo in via dell'Oca con sotto il braccio La romana, La noia, La ciociara, per avere dediche o scritte per ricordo (sono anni a cui si tiene a certe manifestazioni). Alla porta c'è una targhetta con scritto Moravia. Mi viene ad aprire una donna di mezza età, il volto scuro, i capelli leggermente ondulati, il grembiule da donna di casa. Mi fa sedere su un divano, in un salotto arredato senza lusso o ricercatezza. Prevalgono una consueta e consunta normalità che sanno di accessibile e poco pretenzioso. Dalle stanze adiacenti si sente Moravia discutere animatamente. Alza la voce ripetendo frasi con uno svolgimento verbale fluido e asciutto, il cui tono si fa secco e martellante. Non riesco a sentire cosa dice, dato che le parole provengono da stanze dalle porte chiuse. Né si sente rispondere. O chi dovrebbe (la Morante o chi?) forse lo ha già fatto, tanto che a Moravia non rimane che concludere, con aria concitata. Quando entra in salotto, è rigido e risentito. Si muove a scatti. Va a sedersi anche lui sul divano, le gambe accavallate, il gambone allun-ganto e rigido. Muove le mani ora stringendole, ora disunendole. Mi fissa con gelida e distratta attenzione. Mi parla della sua attività ormai trentennale, con compiaciuta esposizione. Si arrabbia quando sa che voglio iscrivermi a Legge (che ho frequentato prima di Lettere): «Ma a che serve? Che vuole fare l'avvocato dei somari? Oggi come oggi, sarebbe più utile frequentare Scienze Politiche, per poi intraprendere l'attività diplomatica». Ricordo il protagonista de L'Imbroglio. Anche lui vorrebbe dedicarsi a tale attività. Prosegue: «Bastano pochi anni di Lettere per avere un buon inquadramento sulla storia e gli autori. Ma lei può benissimo infischiarsene della scuola se vuoi farsi una buona cultura. Attualmente, da solo, sto studiando Storia della Musica. Ho rimediato una buona storia e un bel po' di dischi. Così leggo e poi ascolto quegli autori di cui ho sentito parlare». Gli chiedo notizie più precise su Tolstoi.
«Tolstoi è un realista,
mentre Dostoevskij è un espressionista. Il secondo, per questo, è
più completo del primo. Dostoevskij è stato il creatore
dell'esistenzialismo. Al contatto tra individuo e società, come in
Flau-bert, Dickens, Tolstoi, ha sostituito il rapporto
dell'individuo con se stesso. Per Tolstoi un albero è un albero. La
differenza rispetto al reale è minima. Il realismo alla Tolstoi che
descrive minuziosamente ogni aspetto del mondo esterno non è più
possibile. Dostoevskij fondeva la tecnica teatrale con la narrativa.
Va più a fondo, anche se non sempre riesce a decifrare la realtà di
fronte alla quale sembra disperdersi. Tolstoi ha risentito di quel
clima delirante anche presente in Wagner, ma quando risulta
dottrinario o precettista rimane freddo e schematico». |
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CARMELO R. VIOLA Alberto Moravia o del «realismo borghese» La sera del 25 settembre scorso ricevo da Roma una lunga telefonata del poeta e scrittore Rudy de Cadaval di Verona, che l'indomani, prima di ripartire per mete ulteriori, si sarebbe dovuto incontrare anche con Alberto Moravia. L'indomani, ascoltando, come al solito, il notiziario televisivo delle tredici, e mentre cerco d'immaginare il comune amico in lieta conversazione con il famoso collega, apprendo che questi è improvvisamente scomparso nella mattinata.
Quest'aneddoto, forse
insignificante per chi mi legge, mi ha fatto rivivere il senso reale del
concetto di «tragicità dell'esistenza» di Alberto Perlenghini, della
«livella» del comicissimo Totò (che quel concetto aveva tradotto nella
malinconia immaginificità, che sta dietro la voglia di far ridere) e
alla «vanitas vanitatum» dell'Ecclesiaste... Da un momento all'altro
cambia la «visione mentale» che si ha di una cosa, di una persona,
perfino del mondo intero e basta poco. Così Moravia non mi appare più
quello di qualche giorno fa e la cosa che più mi torna è la comune
mortalità, uno stato d'animo totalmente estraneo alla retorica dei
necrologi di rito e al mestiere di chi trasforma ogni evento in «notizie
da mercato». Queste «resistenze soggettive» non m'impediscono di affermare l'og-gettività dei fatti: Moravia è stato, senza alcun'ombra di dubbio, un «geniale artista della narrazione» e che egli si sia riconosciuto e identificato in questo, l'ha più volte affermato lo stesso, dicendo di credere nella sola letteratura e di praticarla esistenzialisticamente, cioè come strumento e modo di colloquio con se stesso, insomma di autoidentificazione. Da questo si può comprendere tutta la weltanschauung moraviana. Egli è il borghese illuminato perché accetta la realtà borghese e si riconosce in questa, ma non di tutta la società borghese, che comprende necessariamente ricchi e poveri, vincitori e vinti, privilegiati e diseredati, sì di quella parte che non è né eroica né succube ma sta bene, non ha problemi economici (semmai di conti in banca), non ha bisogno di «omologarsi» alla mentalità dominante (essendo essa la mentalità dominante) per riscattarsi da un eventuale stato originario d'inferiorità, come spesso oggi fanno operai e lavoratori «proletari» sostenendo strutture e princìpi estranei (ed ostili) alla loro effettiva condizione di vita. Moravia semplicemente pensava secondo il suo stato socio-economico e in questo era coerente. Chi è arrivato, può permettersi il lusso di non occuparsi d'altro o di farlo «senza impegno». E che non fosse impegnato è ancora il Moravia ad affermarlo. Nemmeno la narrativa era un impegno: era solo il suo modo di essere. E in questo era sincero. Moravia fu ateo per esclusione: anche il credere sarebbe stato un impegno superfluo (e fastidioso) ai suo modo di essere. E se, pur marxista, accetta alfine (1983) la candidatura come indipendente a deputato europeo nella lista del PCI (uscendone eletto), ciò non può sorprenderci avendo quest'ultimo perso da tempo ogni motivazione e finalità rivoluzionaria a favore della «realtà» borghese, come la carità cattolica non ha alcuna intenzione «cristiana» di debellare la povertà, ma solo di renderla sopportabile, e quindi compatibile, come una componente della società borghese. L'assimilazione dell'analisi freudiana e l'insistenza quasi morbosa sul sesso sono altri elementi del borghese che ha la possibilità economica di pensare a godersi l'esistenza nel migliore dei modi. Donde la sua predilezione per i viaggi (il che proprio non è una «riscoperta dell'America»!). Proprio perché borghese illuminato, Moravia non si pone problemi di morale religiosa, semmai laica. Saremmo ingiusti se non gli riconoscessimo il senso della misura civile e dell'onestà, propria di un borghese illuminato, che crede nella «leggittimità» e sacralità del suo «status». Del resto, la proiezione del successo di Moravia è un fenomeno tipicamente borghese, cioè di un tipo di società concepita come contesto di concorrenza e di gara, in cui per l'appunto il successo risponde ad una scala di valori sui generis, senz'altro amorali, poiché riferiti esclusivamente alla tattica ed alla strategia del successo stesso (nella scala del potere economico o del potere semplicemente). Così, un'opera letteraria viene pubblicata dal grosso editore solo se è più commerciabile di altre, ed è letta più per una questione di moda e d'induzione consumistica che per interesse specifico: il valore intrinseco del lavoro, inteso come contributo alla scienza e al bene comune — capisaldi di una vera morale, universale per antonomasia — è secondario o assente nell'uno e nell'altro caso. Ora, è fuori discussione che la prosa di Alberto Moravia, a parte tratti di cattivo o pessimo gusto ed anche se talvolta scarna, è, nel suo insieme, magistralmente compita e piace per se stessa. Il fatto che — come affermano non pochi critici anche borghesi — avesse finito per girare intorno a se stessa, non ne menoma la valenza stilistica ma denota appunto la limitatezza tematica, la conseguente inevitabile ripetitività, la naturale mediocrità speculativa. Tale prosa esauriva la propria funzione in se stessa. Moravia non aveva appunto, la tempra del filosofo e del teoreta, non cercava spiegazioni originali, semmai cònsone al costume borghese. Se per questo lo si è definito «moralista», ciò è stato fatto, a mio avviso, con totale improprietà di linguaggio. Egli era solo un «descrittore soggettivo della realtà borghese propriamente detta» di chi è riuscito o pensa che non ci sia altro da fare che «lottare per riuscire». È stato un rappresentante eccellente della letteratura del «realismo borghese». Come tale non lo si può classificare né ottimista né pessimista: egli è semplicemente un uomo che percorre con successo il vicolo cieco dell'ideale borghese, che è quello del successo stesso, successo personale s'intende, concepito come valore a sé stante non come mezzo di vita, insomma (come si suoi dire) come «status-symboì», alla conclusione del cui percorso il soggetto accusa necessariamente stanchezza e noia. Nessun rimpianto (nel caso specifico), per ammissione dello stesso autore, se non, eventualmente, quello di non essere stato, in qualche occasione, sufficientemente capace di spingere fino in fondo il «gioco della gara», per esempio, nei riguardi di qualche donna interessante. Certo, ognuno da quello che geneticamente ha, senza merito o demerito. Ognuno risponde agli imperativi del DNA prima che a qualunque altro, ma è anche il prodotto del tempo-ambiente in cui si forma un costume culturale (la cosiddetta «seconda natura»). L'individuo reale è la resultante di un triangolo di cui un vertice esprime le necessità biologiche costanti comuni a tutti i suoi simili, gli altri due, altrettante «mediazioni» rispettivamente genetica e socio-culturale. E più alto è il suo livello evoluzionale, più egli può rendersi conto che l'esistenza è anche un'avventura vissuta con gli altri e per gli altri, per i presenti e per i posteri e non solo perché senza gli altri nessuno esisterebbe, non solo perché con gli altri c'è mutualità di affetti e di amore, ma soprattutto perché negli altri, e nella memoria degli altri, si sopravvive realizzando il livello supremo (e per questo insieme poetico e morale-estetico ed etico) dell'auto-identificazione. Moravia provò da giovane la malattia. Il successo gli arrise naturalmente per il suo talento «affabulativo», perché insiste su fatti reali riscoprendo motivi e risvolti ambigui della sessualità, taciuti o ignorati dal lettore medio e che, proposti in versione romanzesca, acquistano il sapore della rivelazione peccaminosa. È assai probabile che la fortuna di scrittrice di Frangoise Sagan sia cominciata proprio così, ma è impossibile fare un parallelo con il nostro Autore. Altro motivo del favore iniziale del Moravia è paradossalmente il suo non essere fascista in un'epoca in cui esserlo — o il fingere di esserlo — era condizione di sopravvivenza. Se si vuole essere onesti nel giudicare un autore (ammesso che il nostro giudizio serva a qualcosa), bisogna dirne sinceramente insieme il positivo e il negativo che se ne pensa senza tuttavia pretendere di formulare una valutazione definitiva e inappellabile. Del resto, la conoscenza del nostro simile, anche quando ci sforziamo di essere obiettivi, è inevitabilmente il risultato di un confronto con noi stessi, cioè con nostri personali riferimenti convenzionali. E non potrebbe essere altrimenti, lo, per esempio, non so apprezzare un uomo soltanto per quello che fa, ma anzitutto per i fini che persegue nel contesto della sua vita privata e, in rapporto al suo livello culturale, anche sociale. Un grande pittore mi lascia indifferente se asserve la sua arte alla venalità e all'egoismo; un me-diocre artigiano può valere molto di più se vive ed opera ispirandosi a ideali di bellezza e di pulizia morale. Dei nazisti erano fisicamente tanto belli quanto mostruosamente crudeli. Perciò non riesco a distinguere l'artista Moravia dall'uomo Moravia. Del primo ci sono sessant'anni di brillante carriera letteraria, che ne danno oggettiva testimonianza. Carriera che, come ormai tutti sanno, ebbe inizio nel 1929 con la pubblicazione de Gli indifferenti, titolo emblematico di uno scetticismo sereno, tutto borghese, del resto, che lo accompagnerà per il resto della vita e che spiega, magari in termini buoni, certi suoi atteggiamenti ambigui. Quello, per esempio, del rifiuto dell'etichetta di scrittore impegnato, rifiuto dietro cui può esserci tanto un atto di disprezzo — tutto medio — borghese — dell'impegno come alienazione dell'arte fine a se stessa — quanto un encomiabile atto di sincerità. Tuttavia, non c'è certamente un disprezzo per i frutti pecuniari dell'arte stessa. Chi ha conosciuto personalmente Alberto Moravia, ne parla come di persona generosa e tollerante, ed è da crederci. La generosità e la tolleranza possono essere il prezzo facile (l'alibi) con cui un uomo mite e quieto paga l'incapacità dei grandi rischi. Per contro, l'ingenerosità e l'intolleranza, come la passionalità civile, contraddicono all'aurea tranquillità del borghese medio. Anarchici e radicali sono spesso borghesi arrabbiati che si battono per un ideale dentro cui già vivono. Alberto Moravia, per lo meno, ha il merito di non essersi sprecato per degli abbagli. Quello che non si comprende, o si comprende molto bene, è l'esaltazione inscenata dall'ex PCI per il «grande contestato del '68» quale fu Moravia da parte degli studenti del famoso movimento.
Altro segno,
positivamente ambiguo, è l'ammissione (da parte del Moravia) di non
piacersi e di non piacergli rileggersi. Se sincera, siffatta ammissione
può confermarci il fenomeno, del resto frequente, di un «demone
medianico» che ci vive dentro come una seconda persona, con cui ci si
identifica perché ci fa importanti e famosi, ma verso cui, fuori dei
momenti d'ispirazione e di grazia (di «stato medianico») ci si può
sentire perfino estranei. Forse il vero Moravia era l'«indifferente»
(indifferente anche se stesso!) come ci suggeriva la sua espressione
pacata, più evidente negli ultimi tempi. Quanto è... complessa l'unità
dell'«io»! Ce ne da conferma lo stesso Moravia attraverso la
lunghissima intervista concessa ad Alain Elkann, raccolta nel libro Vita
di Alberto Moravia che Bompiani ha presentato alla «Fiera internazionale
del Libro» di Francoforte, e di cui l'Espresso del 23 settembre 1990 ha
anticipato alcune «voci». È attraverso queste «confessioni (Dio solo sa
quanto convenzionali) che Moravia, fuori dell'imperio del... demone
interiore, ci rivela la sua umanità, paradossalmente proprio dal suo
imbarazzo a parlare di se stesso, avendolo fatto nella sola maniera in
cui può farlo un narratore nato, cioè «narrandosi» nei suoi personaggi
e nelle vicende attribuite agli stessi. Donde la verità inoppugnabile
del carattere virtualmente autobiografico ed «ego-centripeto» della
produzione letteraria (realizzata sotto una specie di necessità
medianica) e che lo stesso considera come il filo conduttore del caos
della vita. Il concetto trova ulteriore conferma a proposito dei poeti
che Moravia considera (e a ragione) deludente conoscere perché il poeta
(inteso come costruttore di versi) è integralmente tale solo nel momento
in cui «crea», dopo di che riveste i panni di un uomo qualunque con le
sue banalità e le sue cattiverie. La considerazione va estesa a tutti
gli operatori (medio-borghesi) dell'arte e della cultura. Forse hanno ragione alcuni critici nel paragonare il Moravia maturo a una trottola che gira vorticosamente intorno a se stessa, illudendosi di spaziare. Ma se si tiene conto della scheda giovanile dell'Autore (come prescindere dall'influenza della propria esistenza?!), bisogna concludere che come «borghese di elezione», ha perfino operato dei miracoli, non disdegnando di accostarsi, sia pure «senza impegno», agli ideali della sinistra rivoluzionaria (ovviamente ormai ridotti ad alibi simbolici di exmilitanti). |