Solidamente terrestre per vocazione e cultura, marino per esperienza, anche personale, Massimo Giannotta ha esibito una scrittura "anfibia" in numerosi e importanti lavori poetici: da Nostra patria (Lecce 1981, rist. a Roma nel ‘95) a Il ventre della notte (Roma, 1993), dalle traduzioni da S. T. Coleridge de La ballata del vecchio marinaio (Roma, 1993) a L’anima dell’acqua e altre poesie (Roma 1996) di Kikuo Takano in collaborazione con Y. Matsumoto. Ma dove l’elemento liquido pretende uno scenario onnicomprensivo e il viaggio si fa traversata di luoghi tanto aleatori quanto rischiosi diventando istruzione e precorrimento, attesa e pericolo, è nel Portolano di mari iperborei (Roma 1998). Perché qui "l’immane abisso" che percuote "patetici fendenti in mute acque" sovrasta la più pigra quotidianità: "Noi gente/umana e disumana...se attendiamo inquieti la sirena/che chiami lamentevole all’imbarco/ oppure rassegnati il fantasma di un tram/indolenti leggendo alla svoltata/ il solito giornale...restiamo inerti ad aspettare che c’inghiotta/al morire del giorno/il sordo buio..." (p. 44-5); e l’agitarsi dei flutti diventa pure metafora per la "lunga traversata della città" : "Così, quasi senza esitazione, ci getteremo in uno dei rigagnoli di gente che scorrono stancamente lungo i vicoli fangosi, e di strada in strada, ci lasceremo trasportare con lieve sensazione di vertigine da ruscelli di folla attraverso gore e torrenti di umanità; fino ad affluire in uno dei vasti, nereggianti fiumi, che scorrono attraverso le metropoli..." (p. 76).
La doppia citazione non appaia pleonastica. Serve in realtà a evidenziare la duplice cifra stilistica in cui si articola il libro: prose di istruzione, sulla scia dei vecchi "portolani" e dal vago sentore didascalico-leonardesco, rassegne di strumenti d’uso navigatorio, annotazioni estemporanee, cataloghi e avvisi, il disegno di carte nautiche di probabilità borgesiana, calcoli astronomici e geodetici, da una parte; e dall’altra l’invito all’avventura e la sfida a un tempo maligno che corrode la modernità come tante "burelle tufacee" (p. 80) osservandosi "in lontananza le monotone schiere di fabbricati che si ergono, tra i quali spiccano le macchie incerte dei campi precari dei nomadi, le avanguardie delle baraccopoli cresciute ai margini delle discariche..." (p. 86).
Come orientarsi? Proporrei, per azzardare un’ipotesi che potrebbe farsi stringente, di inseguire la pronunzia classica e medievale, scientifica o divinatoria della scrittura sempre e raffinatamente letteraria di Giannotta. Direi che nella distesa cartacea a disposizione dell’autore i "reali" transiti avvengono dalla leggenda di san Brandano al ciclo di Lancelot, che un passaggio "si avvera" dalla sfortunata nave di Shelley (Ariel) al personaggio shakespeariano, che una sorprendente proliferazione semantica si registra muovendo da Omero a Cesare e da questi a Bernardino Baldi.. Mi sembra insomma che la topica del Portolano si svolga attraverso la pretica ciceroniana del "locos nosse" a cui l’oratore latino attribuiva la facoltà cognitiva di una civile e aristocratica conversazione in pubblico. Se è così il palinsesto letterario di Giannotta costituisce una garanzia di
alta "discrezione"; a dispetto dei tempi votati alla disattenzione e magari corrivamente "citazionisti", aver convertito la memoria, la sapienza, un amore tutto umanistico per la tradizione in luoghi di frequentazione e di permeabilità estetica rappresenta una parsimoniosa promessa di successo. Se c’è poi qualcosa che sfugge alla saldatura tra la Bibbia e le saghe nordiche, o il canzoniere di Guido e Omar Kayyam, ciò corrisponde alla comparsa, tanto più rara quanto inattesa, di un linguaggio metropolitano scarno e irriverente, talvolta apertamente provocatorio, che è motivo non secondario di ulteriore interesse.
CLAUDIO MUTINI